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Lungo viaggio
tra misteri
e abbandono

In via del Mare lo chiamano il fenomeno. Qualsiasi cosa  sia. È il fenomeno a bruciare le cose. È il fenomeno ad essere tornato, dieci anni dopo, a fare di Canneto di Caronia luogo di misteri, di inquietudini, di domande senza risposte. Proprio alla fine del ponte che bypassa la ferrovia, unendo questa minuscola frazione della costa tirrenica alla strada statale, a far da sentinella c’è un furgoncino della Protezione civile. Non c’è nessuno sopra, è parcheggiato lì. Dovesse servire. Serve di sicuro a ricordare che oltre quel furgone, qualche metro più in là, continua ad accadere qualcosa di molto strano. Oggi come nel 2004. E semmai non dovesse essere sufficiente, basta dare una sbirciatina dentro. La parte in plastica tra un sedile e l’altro, sotto il cambio, è liquefatta, bruciata. Colpita anch’essa dal fenomeno.
 Superando il furgoncino-sentinella, a destra la rumorosa, “sospettata” ma scagionata Ferrovia, a sinistra il silenzioso, insospettabile eppur sospettato mar Tirreno, si arriva in quella piccola strada senza uscita chiamata via del Mare. Dieci anni fa era il centro del mondo, vigili del fuoco, carabinieri, esperti, scienziati, troupe televisive d’oltreoceano, tutti venivano a vedere, tutti volevano capire. Oggi in quel lembo di cento metri scarsi, dove qualcuno-qualcosa – il fenomeno – sembra quasi abbia voluto scegliere su chi e cosa “concentrarsi”, nessuno sembra più voler vedere, nessuno sembra più voler capire. Qualcuno preferisce anche non parlare, perché episodi del passato, che narrano di galline, conigli, animali morti, devono rimanere confinati lì, nei ricordi da cancellare. C’è poi chi vive in via del Mare da 30 anni ma il fenomeno l’ha conosciuto solo indirettamente. Potremmo chiamarli i “vicini di casa” del fenomeno, non per questo meno vogliosi di ottenere una verità vera.
      E poi ci sono i Pezzino e i Rossello. E la signora Lorenzina. Che nell’accoglierci ci mostra quello che è diventato un vero e proprio museo. Poltrone, divani, panche, sedie, un computer, un televisore, una macchina per cucire, e poi armadi, frigoriferi. Tutto bruciato. Tutto  annerito. Tutto esposto lì, sulla strada. Dove parcheggiata c’è un’autobotte – altra sentinella – come se bastasse quella, insieme ad un paio di estintori, a rasserenare chi è stato sgomberato da ciò che rimane della propria casa ma che lì, di fronte alle porte e alle finestre spalancate, rimane tutto il giorno, tutti i giorni, a fare la guardia. «Almeno fino a quando non torneranno i vigili del fuoco», spiega Nino Pezzino. È lui il punto di riferimento di chi il fenomeno lo conosce meglio di chiunque altro. Di chi cerca risposte  e diffida di qualsiasi cosa. Ad esempio, racconta Calogero Rossello, «ogni sera vediamo aerei a bassa quota, anche militari. Prima non se ne vedevano». Prima di luglio, prima che il fenomeno tornasse.
  «Ci sentiamo completamente abbandonati – dice Pizzino, testimone di gran parte dei 150 eventi di quest’anno e degli oltre 180 di dieci anni fa –. Sembra quasi non ci sia interesse a capire cosa succede. Nessuno viene a fare prelievi, a ritirare reperti, a indagare. Dieci anni fa ogni oggetto che prendeva fuoco veniva preso, sequestrato, analizzato. Quest’anno nulla. Gli oggetti sono tutti qui, li vedete». Tutti sulla strada o ancora dentro casa. Come la valigia che improvvisamente ha preso fuoco. Gli armadi che si sono incendiati dall’interno, proprio come i frigoriferi. Le sedie di plastica accatastate trasformate in una inquietante scultura post-moderna. Oppure le tovaglie da bagno, ancora appese al muro, incenerite come la tenda bianca al primo piano di casa Pezzino. «La Procura nel 2008 ha detto che la causa è da rintracciare nella “mano umana”. Ma se c’è un piromane, che per giunta torna a colpire dopo dieci anni, perché nessuno lo cerca? Perché nessuno monta telecamere?». I perché senza risposta sono tanti. Troppi.
Pezzino spiega che il ritorno del fenomeno  non è stato improvviso. Di segnali ce ne sono stati, in questi dieci anni. Prima una casetta abbandonata, vicina al torrente, andata a fuoco. Poi alcune canne della campagna incenerite. I rilevatori di fumo che di notte entravano in funzione da soli. E l’impianto dell’Enel. Così è ricominciato tutto. «Nel 2008 è stato realizzato il nuovo impianto – racconta Pezzino –. In otto mesi ci sono stati quattro incendi in cento metri. Ci hanno detto che era normale. Una mattina un palo va in fiamme e si stacca la corrente. Gli operai la riattaccano e per errore mandano una 380 in tutte le case. Nessuno però ha spiegato il perché delle fiamme».
Altri perché. Che costringono Pezzino e gli altri a fare la “veglia”. La sera tardi li ritroviamo lì, in via del Mare. Seduti a circolo, a chiacchierare. E ad annusare. Perché la puzza di bruciato è il primo segnale. Il fumo è il secondo. Poi bisogna intervenire. È vero, dentro non c’è più nulla. E allora c’è un ultimo perché, a cui risponde Pezzino. «Perché siamo qui? Siamo qui per salvare il tetto di casa nostra».

Sebastiano Caspanello

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