La strategia faticosamente elaborata da Obama in Medio Oriente rischia di scoppiargli in faccia, un po’ come quei petardi che si mettono nei sigari per giocare un brutto scherzo a qualcuno. Solo che qui c’è veramente poco da ridere. Errori (clamorosi) delle passate Amministrazioni americane, foie e velleitarismi assortiti di alcuni “soci” europei (Francia e Gran Bretagna in testa, scannamenti reciproci tra i millanta “consiglieri” della Casa Bianca, fretta indiavolata di mettere una pezza ai disastri combinati soprattutto da Bush (figlio), obiettiva difficoltà di raccapezzarsi di fronte a uno scenario internazionale sempre più schizoide: sono tutti questi elementi che hanno finito per creare la tempesta (diplomatica) perfetta. Oggi nessuno sa quello che succederà domani, dal Marocco fino all’Asia Centrale. Anzi, ciò che va capitando nei tre quarti del pianeta, dato che il fondamentalismo islamico è ripartito all’assalto a ogni latitudine (e longitudine) come ai tempi di bin Laden. E nessuno può più sentirsi al sicuro, manco in casa propria. Risultato: la politica estera Usa continua a muoversi a zig-zag, tirandosi appresso il resto delle Cancellerie occidentali, quasi sempre incapaci di smarcarsi. Un esempio? In Irak, dopo gli scoppoloni mollati dal “Califfo” e dai suoi inferociti e sanguinari seguaci dell’IS (Islamic State, ex ISIS), Obama ha fatto una mezza marcia indietro. Doveva lasciare sunniti, sciiti e curdi a bollire definitivamente nel loro brodo e invece…invece si parla con sempre maggiore insistenza di un ritorno mascherato dell’US Army dalle parti di Baghdad. Intendiamoci, niente di “massiccio”, come la precedente (e ingombrante) presenza protrattasi per quasi dieci anni. Ma, comunque, un dietro-front a tutti gli effetti. Senza troppi squilli di tromba e camuffato sotto la categoria dei “consiglieri militari”, che non si limiteranno di sicuro a bisbigliare all’orecchio dei soldati governativi le cose da fare. Per ora Obama tiene in Irak quasi 1.500 “advisers”, che dovrebbero moltiplicarsi per fronteggiare i miliziani dell’IS, prima che la regione diventi la Terra Santa del jihadismo planetario. Una calamita, a dirla tutta, che attira torme di “pellegrini”, con tanto di kalashnikov, che arrivano da ogni dove e se ne tornano, giulivi, al paesello natio. A mettere bombe. Insomma, ci siamo capiti: i perversi risultati della (ottusa) politica mediorientale condotta dall’Occidente stanno dando risultati clamorosi e fragorosi. E siccome la sicurezza costa, gli americani, che hanno il culto del borsellino anche quando dormono, già cominciano a fare quattro conti. Il Pentagono ha rivelato che, solo negli ultimi due mesi e mezzo, le missioni aeree contro l’IS si sono “bevute” la bellezza di quasi mezzo miliardo di dollari. Il contrammiraglio John Kirby ha aggiunto che il costo medio dell’ennesima “avventura” militare è di 7,6 milioni di dollari. Al giorno. Alla faccia della “esportazione della democrazia”, ci permettiamo di aggiungere. Che gli americani abbiano già il dito (tremolante) sul grilletto, è testimoniato dagli incontri avuti dal vice consigliere per la Sicurezza nazionale, Antony Blinken, in giro per l’Irak. Certo, viene ribadito da fonti della Casa Bianca, non verranno inviate ufficialmente truppe di terra; ma la differenza sembra di lana caprina e si limita solo alla qualità delle uniformi (non) indossate. La verità è semplice: l’esercito irakeno non è in grado di fermare l’IS, che nell’area di Mosul, in quella di Anbar e persino dalle parti della capitale Baghdad, sta facendo correre i governativi come lepri. Le tribù sunnite una volta alleate, rischiano, per calcolo o per paura, di passare a una a una dalla parte dei jihadisti, che intanto hanno circondato la grande base aerea di Ain al-Asad, la diga di Haditha e numerosi piccoli centri. A Washington si rendono conto che la partita più grossa si gioca, oltre che a Kobane, nel nord della Siria, proprio nella provincia di Anbar, da dove si controllano le principali vie d’accesso a Baghdad, a partire dalla Giordania e dalla Siria meridionale. Le cinque divisioni governative della regione sono state ridotte ai minimi termini, perdendo 6 mila uomini. Altri 12 mila (il che è tutto dire) hanno disertato. Alla Casa Bianca, al di là dell’ottimismo di facciata, qualcuno comincia a temere che possa cadere la stessa Baghdad. In particolare, si pensa a una ripetizione di quanto accaduto a Mosul, dove molti soldati erano presenti solo sulla carta: le liste di arruolamento venivano “gonfiate” dai comandanti, che si mettevano in tasca le paghe delle truppe-fantasma. Così, quando si è cominciato a sparare sul serio, metà degli effettivi non era mai esistita e l’altra metà si è squagliata. Ergo: i miliziani islamici avrebbero vinto anche andando all’assalto con le fionde e i fucili coi tappi. E i bombardamenti Usa? Coreografia. Hanno fatto qualche danno ma, per la maggior parte, dicono fonti confidenziali, sono serviti solo a cacciare le mosche. Alti ufficiali irakeni stimano che su 60 mila soldati governativi ufficialmente schierati ad Anbar, quelli di fatto presenti (e in attesa di scappare) sono meno di 20 mila. Se non cambia qualcosa, il “Califfo” prenderà presto il posto che fu di Saddam Hussein che, a questo punto, sembra un paradosso (o una barzelletta, fate voi) comincia a essere “rimpianto” al Pentagono, dove diversi generali a tante stelle avevano convinto Bush-padre, dopo la Prima guerra del Golfo, a lasciarlo al potere. Per fare la guardia all’Iran e ai fondamentalisti islamici. Accordi sottobanco? Protocolli segreti? Forse. Poi più di qualcosa è successo, con Bush-figlio e con la compagnia di processione dei “falchi”, armaioli e petrolieri, che gli stavano appresso: Dick Cheney, Richard Armitage, Richard Perle, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz. Per l’occasione, imbecillità o malafede, i servizi segreti Usa si sono bevuti la favoletta, fabbricata a tavolino, delle “armi di distruzione di massa” che Saddam avrebbe stipato nei suoi arsenali. Tutto falso, ovviamente, come nei film di spionaggio di quarta mano. I risultati li conoscete tutti. Dieci anni di guerre, guerriglie e imboscate. Una catasta di poveri morti, tra civili e militari, e una situazione politica che ha finito per destabilizzare ulteriormente tutta la regione. Oltre alla risurrezione, quasi planetaria, di un fondamentalismo islamico belluino. Ad Anbar, dunque, si potrebbero decidere non solo i destini dell’Irak, ma anche quelli di tutta la macro-area di crisi che dall’Atlante africano arriva fino al Pamir asiatico. D’altro canto, gli americani di errori ne hanno fatti a bizzeffe. Bush-figlio ha avallato la tripartizione irakena (tra sciiti a sud, sunniti al centro e curdi al nord) che non ha funzionato per niente. Così, quando l’ex premier al-Maliki (sciita) ha spedito l’esercito a controllare le tribù sunnite di Anbar, la protesta è diventata rivolta e i miliziani dell’IS sono stati accolti in alcune zone di Falluja e Ramadi con la musica. Ora Obama sta cercando di chiudere le porte della stalla. Ma i buoi sono scappati da un bel pezzo.
Irak, tutti gli
errori (e gli orrori)
di Piero Orteca
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