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Un’intera brigata
passa col “Califfo”

                                                                                                    di Piero Orteca

Questa volta il “cinque” l’ha battuto il “Califfo”. In faccia a Obama. E gli ha lasciato tutti i segni dello sganassone, tanto per fargli capire con chi si è messo a litigare. Un’intera brigata di volontari, che gli americani avevano addestrato in Giordania per combattere contro i fondamentalisti, spendendo un sacco e una sporta di dollari, ha girato i tacchi (e i fucili) ed è passata armi e bagagli al nemico, cioè all’Islamic State. La “al-Yarmouk Shuhada Brigade”, istruita (complimenti!) dall’US Army e dalla Cia per due anni, ha lasciato tutti con un palmo di naso e appena ha potuto ha fatto il gioco delle tre carte, mettendo il fronte sud-ovest siriano in subbuglio. Gli israeliani, che hanno fatto trapelare la notizia, sono letteralmente inferociti per la dabbenaggine americana, che pone le loro posizioni nel Golan in pericolo e che, di fatto, annacqua l’altra notizia (buona) sui successi dei curdi a Sinjar. La “Yarmouk”, dicono a Gerusalemme, dispone di oltre 2 mila uomini che avrebbero dovuto agire da “alleati” contro Assad e che ora, invece, l’Occidente si ritrova contro, col rischio di veder collassare mezzo fronte. Secondo i servizi segreti con la Stella di David, il salto della quaglia è stato negoziato direttamente dal comandante dell’unità, Mousab Alì Qarfan, col “Califfo” in persona, Abu Bakr al-Baghdadi. La costernazione di Gerusalemme nasce anche dal fatto che la “Yarmouk” controlla metà del confine tra Golan israeliano e Siria e parte di quello con la Giordania. Proprio da dove arrivano gli aiuti americani (a questo punto, non si sa proprio diretti a chi). Ora, con una prevedibile manovra a tenaglia, l’IS potrebbe tagliare fuori le aree dei Drusi per ricongiungersi con i nuovi alleati a Deraa. Insomma, una disastro. Molti analisti cominciano a chiedersi se Obama e i suoi “strategist” in Siria non stiano prendendo cavoli per lampioni. Ormai è chiaro che l’ex nemico Assad è diventato una specie di “compare d’anello” del presidente Usa, grazie alla mediazione degli (altrettanto ex) odiatissimi ayatollah di Teheran, capitale dello sciitismo. Nel mezzo ci sono i ribelli, che una volta combattevano contro il governo di Damasco e che ora si scannano tra di loro o, addirittura, sparano sugli americani. Ovviamente, la lite è sempre per la coperta. Così, gratta gratta, si scopre che qualche giorno fa la Casa Bianca avrebbe finito per convincersi che il miglior alleato contro il “Califfo” è proprio il presidente Assad e che l’ esercito siriano può fare il “lavoro sporco” senza rischiare i nobili lombi dell’US Army. Non solo. Ma siccome, la democrazia… blablabla e ancora blablabla è importante, ma la sicurezza delle terga, forse, lo è ancora di più, con quest’ennesimo giro di valzer si realizzerebbe un auspicato riavvicinamento alle posizioni di Putin e, udite udite, anche a quelle di Hezbollah. Naturalmente si aspettano sviluppi, dato che di questi tempi la diplomazia balla come un tavolino zoppo durante una scossa di settimo grado. Però, le premesse per un altro “reshuffling” (rimescolamento) delle posizioni Usa in Medio Oriente ci sono tutte. D’altro canto, bisogna considerare le conseguenze. Il vero convitato di pietra di tutto l’affaire è l’Arabia Saudita, che per defenestrare Assad ha speso un pozzo di soldi e che ora si ritrova con gli sciiti iraniani dietro la porta. Poi c’è Israele, che non spasima certo per le sorti del governo di Damasco, ma che, di fronte all’avanzata del “Califfo”, in qualche modo ha dovuto cambiare atteggiamento. Anche se stare, paradossalmente e occasionalmente, dallo stesso lato dell’Iran “atomico” non può far piacere a nessuno dalle parti di Gerusalemme. Comunque sia, i segnali sembrano indicare tutti come Obama abbia finito per cambiare definitivamente atteggiamento su Assad. Il Ministro della Difesa Usa, Chuck Hagel, che ne chiedeva la testa, è stato… “dimesso” su due piedi. Al meeting del Consiglio di Cooperazione del Golfo, svoltosi a Doha la scorsa settimana, inoltre, sulla Siria (e contro Assad) non è volata una mosca. Si è solo discusso di «sicurezza, stabilità e integrità territoriale». A Roma, il Segretario di Stato John Kerry e il Ministro degli Esteri russo Lavrov, poi, hanno parlato a lungo di Siria. Il Cremlino ha ribadito che Assad «non si tocca» e gli americani avrebbero abbozzato, in cambio di un atteggiamento più morbido sulla Palestina e di un aiutino per fermare il “Califfo”. Più in dettaglio, il piano di Putin per la Siria prevede una tregua generalizzata, a cominciare da Aleppo, ed elezioni amministrative aperte alle opposizioni per trovare un terreno comune d’intesa. Il progetto del Cremlino sarebbe stato illustrato dal vice ministro degli Esteri Mikhail Bogdanov ad Assad e, in Turchia (campo neutro), persino a Hezbollah e ai rappresentanti dei ribelli. Certo, dicono gli analisti, il lavoro sotto traccia di Obama e Kerry potrebbe finire per affossare o, comunque, indebolire il piano di aiuti (350 milioni di dollari) all’Ucraina, previsto sotto l’Ukraine Freedom Support Act. Nel polpettone diplomatico entrerebbe qualche forma di “gentlemen’s agreement” anche per i missili nucleari a medio raggio di base in Europa. Ma la sorpresona più forte, incartata nel pacco preparato dal duo Kerry-Lavrov, riguarderebbe l’impegno degli americani a far tornare Israele dentro i confini polverizzati, nel 1967, dalla Guerra dei sei giorni. Più facile a dirsi che a farsi. Resta il fatto che se la Dottrina Obama, sulla spinosissima questione, ha preso questa piega, nei prossimi mesi potremmo vederne delle belle. Con i democratici Usa di origine ebraica pronti a schierarsi sulle posizioni del Partito repubblicano pur di stoppare quello che già viene definito come il “patto scellerato”. Qualcuno, dalle parti del Mossad, comunque, deve aver fischiato la cosa al premier israeliano Netanyahu, che ha reagito, belluinamente, a stretto giro di posta: che nessuno, all’Onu, si sogni di mettere sul tappeto un’ipotesi del genere, perché Gerusalemme farà saltare il banco. E per far capire che non scherzava, lo stesso Netanyahu ha autorizzato un raid aereo contro un carico di missili russi che, dalla Siria, stava per prendere la strada di Hezbollah. Mosca ne ha chiesto conto e ragione, ma allo stesso tempo sembra che anche Obama abbia manifestato tutte le sue perplessità. Di sicuro i rapporti della Casa Bianca col tradizionale alleato mediorientale, giusto ora, non possono definirsi “eccellenti”. Anzi, “Foreign Policy” ha rivelato una sorta di ricatto della Casa Bianca: se alle prossime elezioni dovesse rivincere la destra di Netanyahu, Obama potrebbe ridurre, e di molto, il suo sostegno a Israele. À la guerre comme à la guerre. 

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