C’ è un solo grande obiettivo nel programma di ogni nuovo presidente americano: essere rieletto. Punto. Tutto il resto dipende, a scalare, da quest’unico, ossessivo, “scheduled plane”. Una volta ottenuto il secondo mandato, qualsiasi inquilino della Casa Bianca si trasforma, si cura un fico secco del suo potenziale elettorato, imbroglia di meno e farfuglia poche scuse. Insomma, è veramente se stesso. Obama, con l’apertura diplomatica nei confronti di Cuba, ha fatto ora quello che avrebbe voluto fare già da qualche anno e che non si poteva permettere, per timore di perdere punti importanti nell’elettorato ispanico e in quello moderato. Già nel 2009 aveva cominciato, però, a lasciare intendere che la “guerra fredda” con l’Avana, vecchia di mezzo secolo, aveva fatto il suo tempo. E si era già deciso a togliere qualche laccio e diversi lacciuoli. Oggi, però, che è libero e bello, fa il “liberal” senza macchia e senza paura, tanto le pere dovrebbe pagarle il prossimo “front runner” democratico alla presidenza (Hillary Clinton, diciamo noi), specie se il candidato repubblicano dovesse essere Jeb Bush, governatore della Florida e fratello di George Washington (Bush), nonché figlio dell’altro Bush-presidente. In una corsa alla Casa Bianca che si annuncia come un’edizione riveduta e corretta di quel polpettone televisivo che fu Dinasty. Insomma, pensa Obama, “chissenefrega” se la mossa di aprire ai “barbudos” cubani dovesse mettere in subbuglio una parte dell’elettorato? In fondo, io ho già ottenuto quello che volevo, ora tocca agli altri remare, per spingere il caicco democratico verso lidi sconosciuti. Intendiamoci: in America Latina, negli ultimi cinquant’anni, gli Stati Uniti hanno sbagliato quasi tutto, trattando l’immensa regione come il retrobottega di casa che, come diceva la “mamma rocca”, si guarda ma non si tocca. La democrazia era un “optional” spesso fastidioso e i tempi della politica estera a stelle e strisce li dettavano le multinazionali. Nel mazzo, il regime cubano faceva la figura del “cattivo”, e Fidel Castro, che agli americani l’aveva giurata fin dallo sbarco nella Baia dei Porci (la fallitissima operazione coordinata dalla Cia, in stile film di Totò, per rovesciare il “Lìder Màximo”) si dava da fare per dare ragione all’inimicizia dei potenti vicini capitalisti. Cuba, a un certo punto, era diventata una pedina nelle mani dell’Urss e il suo esercito veniva utilizzato in tutto il Terzo mondo per dare filo da torcere alla “controrivoluzione”, cioè, tradotto dal politichese, per fare il lavoro sporco che Mosca non poteva permettersi, specie in Africa. Certo, oggi l’isola non è più quella che è stata fino a qualche anno fa, ma non è assolutamente nemmeno ciò che avrebbe voluto essere: un Paese comunista in cui l’eguaglianza potesse camminare a braccetto con l’efficienza. E con la libertà. Un po’ la “quadratura del cerchio” vaticinata da Ralf Dahrendorf per l’Europa e mai realizzatasi compiutamente. Perché concetti come “rete di protezione sociale” (chiamatelo pure welfare), massiccia presenza dello Stato nell’economia e produttività indispensabile per avere un Pil in salute spesso (non sempre) stanno insieme come la panna sulla granita di limone. No, non è una metafora “da bar”. I numeri, i “trend” legati al ciclo industriale, la pressione fiscale, il “software” che organizza la distribuzione della ricchezza, il rapporto tra spesa pubblica e consenso sono alla base (assieme alle disgrazie esportate dal capitalismo di cartone americano) della catastrofe-euro. Un grattacielo costruito con mastice e nastro adesivo sulla traballante sabbia di una spiaggia esposta ai monsoni. Figuratevi i danni prodotti dall’applicazione esponenziale di tutti questi elementi in un sistema che non è stato manco pallidamente paragonabile agli ex “satelliti” sovietici (almeno a Ungheria, Cecoslovacchia e DDR) che, quantomeno, riuscivano a sbarcare il lunario. Crollata in una nuvola di polvere e calcinacci l’Urss, che almeno garantiva pane e companatico per dovere “proletario”, chiusi drasticamente i rubinetti degli aiuti moscoviti “a fondo perduto”, tagliati i trasferimenti di energia, asfissiati per colpa dell’embargo americano (in entrata e in uscita) molti dei terminali commerciali indispensabili per poter sopravvivere, la grande isola caraibica ha dovuto camminare con le proprie gambe. Cioè ha arrancato, finendo per strisciare. Sviluppo socialista autopropulsivo? Manco a parlarne. Lasciamo perdere i Paesi del Comecon o casi-limite come l’Albania. Ma anche Stati potenzialmente “ricchi” come la Cina, o laboriosi (come il Vietnam) hanno dovuto girare pagina per salvare il salvabile. È quello che ha cercato di fare fino a oggi la “nomenklatura” cubana, sforzandosi di “cambiare” perché tutto rimanesse sostanzialmente come prima. Raul Castro, fratello del “Lìder Màximo”, va avanti con bastone e carota, tra mille capriole e tuffi carpiati, sperando di raddrizzare il baraccone prima che si apra come un carciofo. Le “riforme” lasciano il tempo che trovano, perché il sistema è sostanzialmente “irriformabile”. È come quando la Perestrojka di Gorbaciov si sforzava di dare un profilo nuovo a un bicchiere di vecchio cristallo del servizio buono: stringi stringi, gli scoppiava fra le mani, obbedendo alla regola delle “rigidità di sistema”. Sappiamo tutti come poi sia andata a finire. Ovviamente i tempi cambiano e pure gli scenari internazionali. La nuova Guerra fredda con la Russia di Putin non ha niente a che vedere col marxismo e, semmai, i nuovi (e terribili) nemici sono i tagliatori di teste del “Califfo” e i vecchi fondamentalisti legati ad al Qaida. Tutta un’altra storia. Oggi, una Cuba su posizioni più morbide può servire agli Stati Uniti come “passepartout” per dialogare senza ostacoli col resto dell’America Latina. Mentre mettere una pietra sopra al passato per dimenticare le tormentate relazioni coi “gringos” è la strada maestra perché l’Avana si sviluppi economicamente e socialmente. Obama l’aveva capito da un pezzo, ma non poteva fare il passo più lungo della gamba, perché il rischio di pagare dazio con l’elettorato sarebbe stato troppo forte. Questo momento storico, invece, sembra la fase propizia: nessuna preoccupazione per battagliare in un secondo mandato e, sull’altra sponda, una crisi economica devastante e una fame che si taglia col coltello. Ci sono tutti gli ingredienti perché l’Avana, a poco a poco, torni a essere il paradiso tropicale che faceva brillare gli occhi a Hemingway.