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Grecia, un referendum sull’euro

                                                                                                 di Piero Orteca

 Oggi si vota in Grecia, in pratica una specie di esame del sangue per l’Europa. Alexis Tsipras, il leader della sinistra (più o meno radicale) di Syriza, dicono i sondaggi, dovrebbe vincere, rimescolando le carte, è il caso di dirlo, dentro quel gran casinò (con l’accento sulla “o”) che è ormai diventato il sistema-Paese ellenico. Forse non ce la farà a formare un governo di coalizione, ma certamente potrebbe dare una spallata (è troppo presto per le pedate) ai Premi Nobel di Bruxelles, che hanno allargato l’Unione Europea con l’ambizione di costruire tante piccole e grandi Germanie. E hanno finito, invece, per fabbricare una specie di Frankenstein, un mostro economico prima ancora che politico, che a ogni passo rischia di vedere i punti che si scuciono. Tsipras è il prodotto delle ricette elaborate dalla “Troika” (Bce, Fondo Monetario Internazionale e Commissione di Bruxelles) per trattare i problemi finanziari greci, e non solo quelli, purtroppo. Una terapia che ha portato l’ammalato con un piede e mezzo nella fossa, a colpi di “austerity”. Molti economisti e politicanti utili alla causa (ora vi spieghiamo quale), definiti lapidariamente “palloni gonfiati” da un Nobel (vero), Paul Krugman, si sono inventati per i debiti pubblici la cura di quando Berta filava: hanno spremuto i contribuenti come il tubetto di un dentifricio, hanno tassato anche l’aria che si respira, si sono sforzati di tagliare servizi utili (per la collettività) tenendo invece in piedi scassatissimi carrozzoni “indispensabili” (per loro), hanno stretto i cordoni della borsa asfissiando imprese e cittadini e, alla fine, si sono accorti, guarda tu, di avere sbagliato tutto. Lo ha candidamente confessato lo stesso Fondo Monetario, un anno e mezzo fa, in un documento che doveva rimanere riservato e che è invece stato pubblicato dal Wall Street Journal. Nel tardivo “mea culpa” si scrive quello che già molti sapevano, e cioè che gli oltre 300 miliardi di dollari di aiuti stanziati, in più tranche, per la Grecia, sono finiti in gran parte, dritti sparati, nelle banche dei soliti noti (francesi, tedeschi e compagnia bella) che vantavano titoli e crediti altrimenti inesigibili. Ai cittadini ellenici non è rimasto altro da fare che stringere ancora le cinghie, prima di perdere pure quelle e finire coi pantaloni abbassati. Insomma, abbiamo aiutato giocatori di poker e biscazzieri in doppio petto, mentre chi già stava male ha continuato a stare peggio. E oggi c’è pure qualche faccia tosta che si stupisce di Tsipras e della sua contagiosa “eurofobia”. Per dirla francamente, a noi l’Europa piace, ma sicuramente non “questa” Europa. Un soggetto sovranazionale nato e cresciuto sul modello dei bazar levantini e diventato solo in seguito patria comune, con un’operazione forzata e allegrotta di cui ora si vedono buchi e magagne. Non è l’Unione come idea ispiratrice, insomma, a essere messa in discussione, ma il suo modo dilettantesco di realizzarla. E la Grecia, pur contando poco in termini numerici, conta invece moltissimo come modello di una crisi che potrebbe diventare irreversibile. Tsipras, raschiando il fondo della casseruola elettorale, ha detto che il suo Paese dirà basta all’austerity. Gli ha risposto, indirettamente, il Ministro delle Finanze tedesco Schaeuble, che ha minacciato di tenere fuori la Grecia dalle operazioni di acquisto bond (“quantitative easing”) condotte dalla Bce. Andare allo scontro frontale non conviene a nessuno. Sono, infatti, tantissime le incongruenze di un’Europa incollata con lo scotch, che non ha una politica economica e una strategia di foreign policy “veramente” comuni e in cui ogni Stato nazionale, gratta gratta, tira per il suo. Atene si è bevuta centinaia di miliardi di euro in aiuti e “parafernalia” finanziari. E sta quasi peggio di prima. Punto. Evidentemente c’è più di qualcosa che non ha funzionato se Tsipras oggi si presenta all’incasso, facendo leva sullo scontento di una popolazione frustrata e disorientata. Il discorso è lungo ma, stringi stringi, può ridursi ad alcuni concetti-chiave: la Grecia non aveva i requisiti per entrare nell’Unione. È stato un po’ come costringere uno malato di cuore a fare la maratona alle Olimpiadi. Dopo i primi cento metri gli è preso un colpo e hanno dovuto chiamare la croce rossa. Solo che medici e infermieri, sono arrivati con un’ambulanza extralusso carica di ostriche e champagne e, mentre il paziente smaniava, loro davano consigli e si abbuffavano. Tanto pagava Pantalone (cioè i contribuenti europei). Ci spieghiamo meglio. Come abbiamo già accennato, gli aiuti arrivati ad Atene se li sono pappati, in parte è chiaro, banche, bancone e bancarelle straniere, cioè tutti coloro che avevano sganciato i prestiti e che rischiavano di rimanere con le terga ai quattro venti. I greci, invece, hanno dovuto abbozzare, accontentandosi delle briciole. Ma è servito a poco, perché il loro sistema era talmente fradicio da vanificare ogni trasfusione di denaro fresco. Oggi basta controllare gli ultimi indicatori statistici per capire come Atene sia ancora alla frutta. Anzi, all’amaro. O, peggio, al conto, fate voi. Se al posto di Tsipras si presentasse il tabaccaio all’angolo sarebbe la stessa cosa. Molti greci lo voterebbero perché, semplicemente, non sanno più davanti a quale santo inginocchiarsi. È la sostanziale certificazione di una lunga litania di fallimenti, che parte dall’allargamento accelerato dell’Unione, che passa attraverso la moneta unica, brutta copia del marco, e che finisce con le terapie finanziarie a fondo perduto, quelle che chiudono buchi e aprono voragini. Risultato: Frau Merkel, la “capoclasse” che aveva messo i greci dietro la lavagna per punirli, accortasi che i discolissimi discendenti di Platone si stavano mangiando i gessetti con tutta la spugnetta, ha deciso, dicono le cronache, che potrebbe anche farli cacciare dalla scuola. Quella dei ricchi, è ovvio. Si tratta di un avviso di sguincio indirizzato a Tsipras e, sicuramente, all’elettorato greco. Possiamo benissimo fare a meno di voi. Se siete così bravi e convinti, sbrigatevela da soli, ritornate alla svalutatissima dracma, tenetevi sullo stomaco le cose che non vanno e preparatevi ad accogliere chi, con 10 euro al giorno, mangerà, dormirà e si comprerà mezza Grecia. Questo scenario si chiama “l’altro lato della medaglia” e dovrebbe, nelle intenzioni dei moderni nibelunghi, fare riflettere trentatré volte il giovane leader di Syriza, il quale, mano a mano che si avvicina la vittoria, ci dà sotto con le euro-stroncature. Ma anche lo stesso Tsipras sa benissimo che la Grecia si è ridotta in mezzo a una strada per colpe proprie e non solo per effetto del bieco capitalismo di cartone. Anzi, a sommozzarsi nelle scartoffie, si vede che lo Stato ellenico ha fatto carne di porco dei conti pubblici, applicando con navigata strafottenza la filosofia di molte “prime repubbliche”: mangia, bevi e fai debiti, tanto a pagare ci penseranno i fessi che arrivano dopo. Cioè anche noi. Che facciamo parte dell’ idilliaco progetto unionista e che rischiamo di cadere rovinosamente dal letto, mentre sogniamo le bandiere stellate europee garrire al vento della patria comune. Viviamo nello stesso condominio e se la centralina elettrica salta, salta per tutti. O, almeno, era così fino a ieri. Oggi però la musica è cambiata. Le banche europee hanno ormai recuperato il malloppo e qualche vero figlio di Troika, giocando d’anticipo, potrebbe anche decidere di tagliare la luce ai greci, lasciandoli a lume di candela.   

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