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L’Iran di fatto ha ormai la “bomba”

                                                                                                 di Piero Orteca

Ci siamo: l’Iran è ormai, praticamente, una potenza atomica. Nel senso che non ha ancora materialmente in mano la “bomba”, ma se volesse potrebbe costruirsela anche domani mattina. Ha tutto per poterlo fare e la decisione, a questo punto, è solo “politica”. Parole e musica non sono di uno qualunque, ma arrivano (non si sa quanto calcolate nelle conseguenze “boomerang”) da James Clapper, capo del Direttorato per l’Intelligence Usa, l’organismo che coordina l’attività di tutti i servizi segreti americani. Un organismo istituito nel 2004 per mettere una pezza all’incredibile défaillance dell’11 settembre, quando ben 16 agenzie di intelligence statunitensi avevano praticamente lavorato ognuna per conto suo, contribuendo indirettamente al successo del catastrofico attentato condotto da al Qaida. Clapper ha concesso un’intervista a Charlie Rose, del network televisivo PBS, e si è lasciato scappare quella che per Gerusalemme e tutti gli Stati sunniti, dal Golfo Persico al Medio Oriente, è una ferale notizia. Il Mossad israeliano sapeva già tutto, con grande dovizia di particolari, e infatti il premier Netanyahu, durante la sua recente visita a Washington, con un discorso di fuoco ha lasciato Obama livido come una melanzana. Insomma, per dirla con un minimo di sarcasmo, ha fatto “nera” la Casa Bianca. Già da lunga pezza, nell’area considerata, si è assistito a un rovesciamento delle alleanze. Il gruppo vincente tra i 3.000 adviser di Obama nel peloso settore della politica estera ha tracciato la rotta: intesa (strategica, non tattica, cioè momentanea) con gli ayatollah iraniani, garanzia di sopravvivenza per il regime siriano di Assad, addirittura gentlemen’s agreement con gli ex ferocissimi nemici di Hezbollah e guerra aperta al fondamentalismo sunnita, guidato dal “Califfo”. L’Arabia Saudita, di fronte a cotanto giro di valzer diplomatico, ha immediatamente raffreddato i suoi rapporti, una volta cordiali con gli Usa. Per non parlare dell’Egitto di El-Sisi e, in modo più articolato, della Turchia di Erdogan. Israele aveva sostanzialmente già rotto i ponti da tempo con l’Amministrazione Obama e ora, con le elezioni alle porte, Netanyahu sfrutta ogni centilitro di benzina per scaraventarlo sul falò che brucia sotto le terga dei suoi compatrioti, alimentando paure, dubbi e incertezze, se non un vero e proprio senso di smarrimento e frustrazione. Un Iran nucleare, dice il primo ministro di Gerusalemme, è la più pesante minaccia che sia mai stata portata alla sopravvivenza di Israele. Dunque Clapper ha di fatto certificato ciò che molti temevano, cioè che l’Iran da ora in poi potrà contare su una capacità contrattuale “atomica” e che l’unico distinguo potrebbe essere solo la volontà politica di Khamenei, la Guida Suprema di Teheran, di rinunciare ad armarsi. Campa cavallo, aggiungiamo noi. Khamenei (tra l’altro in condizioni di salute malandate) non vede l’ora di sentirsi come Ciro il Grande all’epoca dei fasti di Persepoli, quando il suo Paese faceva ballare pupi e tavolini in mezzo mondo conosciuto. Come detto, l’annuncio di una possibile “bomba” iraniana, già quasi pronta al banco, ha gettato nel panico i sunniti del Golfo. Il Segretario di Stato Usa, John Kerry è volato di gran corsa a Riad, in Arabia Saudita, per cercare di tranquillizzare i soci del Gulf Cooperation Council. Impresa difficile da realizzare anche a portarsi appresso una vagonata di benzodiazepine. La verità è che ormai, in tutta la regione, la tensione si taglia col coltello e ognuno comincia a muoversi per conto proprio. Anche scompostamente. Il segaligno Kerry ha cercato di infiocchettare (ma sarebbe meglio dire infinocchiare) quattro scuse ai suoi irritatissimi interlocutori sauditi, dopo avere incontrato in Svizzera il suo omologo iraniano, Mohammad Javad Zarif, e averci battibeccato per la bellezza di 10 ore. Sul tavolo il negoziato sul programma nucleare degli ayatollah (ormai più vecchio della cucca) e i fantomatici “progressi” che, come i dollari, sono sulle bocche di tutti e nelle tasche di nessuno. Kerry ha annunciato, urbi et orbi, che se Khamenei si deciderà a fare qualche straccio di concessione, finalmente gli Stati Uniti potranno annunciare al mondo “che il negoziato ha avuto successo”. E se non lo farà… beh, allora si continuerà a discutere. Almeno fino a quando, sibilano velenosamente i più critici (gli israeliani, e chi se no?), allo stesso Kerry non crescerà la barba lunga un metro. A Gerusalemme affermano stizziti che le critiche rivolte, più o meno direttamente, da Obama a Netanyahu dopo il suo discorso al Congresso, sono una tattica, una cortina fumogena stesa per coprire momentaneamente le reali intenzioni di Khamenei e soprattutto, per non far arrivare sulle prime pagine dei giornali le furibonde esternazioni del nuovo re saudita, Salman. Il quale, incontrando giovedì scorso a Riad il povero Kerry (ridottosi al rango di punching-ball viaggiatore) gliene avrebbe cantate di tutti i colori. Anche perché da quelle parti sono convinti che ormai Obama non cambierà la sua “Iran-strategy” manco sotto tortura. Comunque, a essere usciti dagli ultimi incontri con gli occhi fuori dalle orbite sono stati soprattutto gli israeliani. Che hanno fatto sapere, in tutte le salse, come Obama e Kerry vadano solo balbettando scuse, accusando gli alleati, a 360 gradi, di non essere stati in grado di offrire un’alternativa credibile per trovare una soluzione alle foie nucleari degli ayatollah. Da Gerusalemme dicono che, for the record, tra il 2009 e il 2012 “il Ministro della Difesa israeliano Ehud Barak e il direttore dei Servizi segreti militari, Amos Yadlin, hanno avanzato proposte su proposte”. Più in particolare, da Tel Aviv proponevano di concentrarsi “sul numero delle centrifughe permesse e sulla quantità-limite di uranio arricchito che avrebbe potuto essere prodotto”. Il risultato è stato un assordante silenzio, compreso (sottolineano con la matita blu in Israele) quello di Hillary Clinton, allora attivissima Segretaria di Stato e oggi più muta di un pesce palla. Si vede che, con l’annuncio della sua candidatura alla Casa Bianca alle porte, Hillary preferisce sbirciare la situazione internazionale da dietro le tende. Si ficca il naso molto meglio e non si rischia di prendere correnti d’aria. E, soprattutto, si evita di beccarsi qualche malanno elettorale, che non farebbe felici solo i repubblicani, ma anche una bella percentuale di democratici che proprio non la digerisce.

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