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Israele e il puzzle delle elezioni

di Piero Orteca

In Israele il caos politico regna sovrano e le elezioni anticipate che si terranno martedì prossimo assomigliano molto a una riffa. Netanyahu ha voluto giocare a poker, alzando il piatto e scommettendo di poter riottenere un nuovo mandato, ma non aveva fatto i conti con gli umori volubili dei suoi compatrioti, abituati a vivere da sempre sui carboni accesi e spesso inclini a riservare sorprese nel segreto dell’urna. Gli ultimi sondaggi, infatti, sembrano tradire l’ottimismo manifestato dal premier uscente, fin qui a capo di una composita maggioranza di centro-destra, e aprono scenari imprevedibili. Scenari, occorre sottolinearlo, che riguardano tutti noi e che travalicano di gran lunga i confini di un Paese che, negli ultimi settant’anni, è stato costantemente al centro delle attenzioni (e delle preoccupazioni) internazionali. Dal nuovo governo israeliano dipenderanno molte cose, in grado di influenzare gli equilibri diplomatici non solo del Medio Oriente e di condizionare anche i rapporti tra le grandi potenze. In ballo, oltre al secolare contenzioso palestinese, ci sono i rapporti con gli Stati Uniti, le relazioni con l’Europa, la possibile soluzione (o l’aggravarsi) delle violente crisi regionali che ormai divampano in tutta la Mezzaluna e, a cascata, altre faccenduole non proprio di secondaria importanza: il controllo del fondamentalismo islamico, la paura che serpeggia a ogni latitudine per il nucleare iraniano, la guerra in Siria (che interessa da vicino il Golan), la caotica situazione in Libia, la mattanza irakena e, last but not least, i pericoli che corrono pozzi e terminali petroliferi nel Golfo Persico, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire in termini negativi per l’economia mondiale. Israele, insomma, è l’alfa e l’omega per la pacificazione di uno spicchio del pianeta, il crocevia da cui passano alcune tra le più importanti transazioni diplomatiche contemporanee e l’elemento in grado, nel bene e nel male, di creare rogne anche nel panorama di politica interna degli Stati Uniti. Crediamo che non ci sia bisogno di spendere altre parole sul perché le elezioni israeliane debbano interessare, e molto da vicino, gli occidentali e noi italiani in primis. Bene, detto questo, va anche sottolineato che, siccome tutto il mondo è paese, pure a Gerusalemme vale il vecchio detto che «la lite è sempre per la coperta». Patria, bandiere, libertà, orgoglio, sicurezza nazionale sono certamente tutti valori che hanno da sempre interessato le elezioni politiche israeliane come temi trainanti. Ma questa volta, dicono tutti i commentatori, le preoccupazioni maggiori riguardano le tasche, la quotidianità spicciola e una pericolosa caduta nella qualità della vita. Per questo Netanyahu corre seriamente il rischio di perdere elezioni che aveva giocato sul filo di una strategia manco tanto nuova: sfruttare le ataviche paure universalmente diffuse nel Paese per la propria sicurezza interna, per l’esistenza stessa di Israele come Stato, puntando a cavalcare gli orizzonti tracciati dai padri della patria. Cioè, nessun cedimento a trattative troppo onerose col nemico e dito tenuto costantemente sul grilletto. Invece i sondaggi dicono che la coalizione di centro-sinistra (Zionist Union) che raggruppa i laburisti di Herzog e i moderati di Hatnuah della brillante ex “ministra” Tzipi Livni potrebbe ottenere la maggioranza relativa (24-25 seggi), relegando il Likud di Netanyahu in seconda posizione (tra 20 e 22 seggi). Tutto deciso dunque? Calma e gesso. Dovete sapere che il panorama politico israeliano è alquanto “disarticolato”, per usare un eufemismo. Ma sarebbe meglio dire che è un minestrone di formazioni politiche tutte assatanate e tutte le une contro le altre armate. A cercare di leggere questo caleidoscopio di programmi, ideologie, etnie, pulsioni religiose e via complicando di questo passo si rischia l’emicrania. E siccome diversi partiti e partitini sono alquanto permalosi e facili a farsi saltare il ticchio, beh il risultato è che le alleanze a volte durano solo lo spazio di un week-end. Insomma i concetti di “destra”, “sinistra”, “centro”, “religioso”, “laico” eccetera spesso vanno a farsi strabenedire. E così le possibili coalizioni, che potrebbero essere formate sulla carta, sono più frutto di intese personali tra i vari leader che ineluttabile convergenza (che proprio non esiste) tra affinità ideologiche. Per capirci, dire oggi come sarà composta la prossima alleanza di governo è facile come azzeccare il Superenalotto con tanto di numero superstar. E per dare un’idea di quello che andiamo dicendo, vi basterà sapere che gli analisti prevedono i seggi di cui abbiamo già parlato per i due partiti più grossi. E poi, nell’ordine ne assegnano: 13 ad Abayt Hayehudi, 13 ad Hadash e all’Unione araba, 8 a Kulanu, 6 aYsrael Beiteinu, 13 a Yesh Hatid, 7 a Shas, 4 ad Ha’am Itanu, 6 a Unite Torah Judaism, 5 a Merem e zero ad Aleh Yarok. Per poter governare ci vogliono almeno 61 voti e, aggiungiamo noi, una buona dose di pazienza e qualche bidone di mastice, per poter incollare i cocci di un panorama politico che appare frammentato come le cristallerie di un negozio invaso da una mandria di bufali cafri. Né ha molto senso fare l’analisi del sangue ai partiti e ai partitini testé nominati, perché pur avendo connotazioni specifiche all’origine, nei fatti ognuno prende la strada delle alleanze che vuole. Ci sono gli ultraortodossi come Shas, ad esempio, o gli esponenti dell’immigrazione russa e slava più in generale (Beiteinu) che si sono scelti come leader il ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, un moldavo dalla lingua svelta e dalle mani pesanti, che faceva il buttafuori in una discoteca. E così torniamo al punto di partenza. Sarà la paura degli estremisti arabi o la assai agognata pagnotta (con tanto di companatico) a condizionare le elezioni? Per ora Netanyahu, che sente puzza di sconfitta, strepita contro i “complotti” stranieri. Se l’è pure presa con gli scandinavi, che finanzierebbero i suoi avversari. L’altro giorno, a Washington, invece, sulla questione del nucleare iraniano con un discorso di fuoco ha lasciato Obama livido come una melanzana. Insomma, per dirla con un minimo di sarcasmo, ha fatto “nera” la Casa Bianca. Con le elezioni alle porte, Netanyahu getta costantemente benzina sul falò che brucia sotto le terga dei suoi compatrioti, alimentando paure, dubbi e incertezze, se non un vero e proprio senso di smarrimento e frustrazione. Vedremo se basterà a evitare una sonora sconfitta.

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