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D’Amico: ho ucciso io Tramontana, voleva eliminare Melo Bisognano

 Nuovi pezzi di storia mafiosa barcellonese che emergono da un’aula di giustizia. E li racconta sempre il pentito Carmelo D’Amico, che da giovane “manovale” della famiglia è arrivato in alto fino a diventarne il capo, insieme a Giovanni Rao e Sem Di Salvo, dopo il lungo regno di Giuseppe Gullotti. L’occasione è stata la nuova udienza del processo d’appello per l’operazione antimafia “Gotha 3” che s’è tenuta davanti alla sezione penale della Corte d’appello presieduta dal giudice Francesco Tripodi, che vede per l’accusa impegnati il sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza e i suoi colleghi della Dda Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo. In questo caso l’altra mattina s’è trattato dell’ultima parte del controesame da parte dei difensori, con le domande al pentito formulate dall’avvocato Pinuccio Calabrò. Poi si sono registrate le dichiarazioni spontanee dell’avvocato Cattafi, una lunga autodifesa con una serie di citazioni, partendo per esempio dai verbali del pentito Pino Chiofalo e passando per i suoi rapporti con l’Aias e con l’ex presidente Luigi La Rosa. Due i passaggi “inediti” che il boss D’Amico ha rivelato in aula rispondendo alle domande del difensore, ovvero le rivelazioni sull’agguato che subì l’ex presidente della Nuova Igea Pietro Arnò, e sulla spietata esecuzione di Mimmo Tramontana, il boss di Terme Vigliatore che finì la sua vita mentre una sera qualsiasi del giugno 2001 era a bordo della sua Audi TT nel suo territorio, in contrada Calderà di Terme. Avrebbe voluto dire altro, l’altra mattina, D’Amico, ma è stato stoppato più volte dal pm Angelo Cavallo, perché ovviamente gran parte delle sue rivelazioni, e le relative indagini dei carabinieri del Ros, sono ancora “coperte”. Sul “tentato omicidio” di Pietro Arnò, avvenuto a Spinesante di Barcellona nel novembre del 2003, proprio rispondendo all’avvocato Calabrò, D’Amico l’altra mattina ha chiaramente attribuito il ruolo di mandante al boss Giovanni Rao, ma non ha spiegato i motivi dell’agguato. E sempre su Rao ha affermato che si sarebbe arricchito parecchio con i proventi delle estorsioni, trattenendone una grossa fetta. Proprio queste “trattenute” e la non divisione con tutto il gruppo e le sue propaggini furono alla base, all’inizio degli anni 2000, della forte presa di posizione di D’Amico contro Rao e Di Salvoil pentito lo ha già detto più volte alle udienze precedenti -, che reclamò più potere e più denaro minacciando di scatenare una guerra, visto che all’epoca era a capo del gruppo di fuoco più potente. Ottenne entrambe le cose, Rao e Di Salvo fecero un passo indietro, e lo accolsero al vertice. D’Amico s’è poi autoaccusato in prima persona dell’esecuzione di Tramontana, che s’è capito dalle sue frasi pagò la sua sostanziale ingovernabilità e la sua voglia di espansione al di là dei confini di Terme Vigliatore. Per esempio nel territorio governato all’epoca da Carmelo Bisognano, che Tramontana lo ha rivelato sempre D’Amico -, avrebbe voluto uccidere. L’altra mattina lo ha detto chiaro, il pentito, che Bisognano gli deve la vita, perché fu lui ad uccidere Tramontana. Ma la volontà di uccidere l’ex capo dei Mazzarroti era da attribuire anche ai vertici della famiglia barcellonese, che per un periodo si convinsero a “mandarlo avanti” anche nei rapporti con le altre province, sostanzialmente per “farlo sbattere” prima o poi, e per poterlo eliminare. Un progetto che non si è realizzato. Un altro passaggio importante delle dichiarazioni di D’Amico dell’altra mattina ha riguardato il boss barcellonese, e suocero del boss Gullotti, Francesco “Ciccino” Rugolo, che governò la famiglia barcellonese per lungo tempo. Secondo il collaborante fu fatto “uomo d’onore” direttamente da Michele Greco.

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