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Venti di guerra tra Iran e Arabia

                                                                                                 di Piero Orteca

Ve l’immaginate un incrocio infernale con un semaforo che funziona a casaccio, come un albero di Natale pieno di lampadine multicolori mezzo fulminate? E, per farla completa, riuscite a figurarvi un povero vigile urbano che, sull’orlo di una crisi di nervi, spaletta nevroticamente al centro di cotanto presepe stradale, cercando di scansare di tutto, dalle bici, ai Tir, alle strombazzanti Moto Ape? Beh, vi abbiamo appena descritto come funziona per ora il Medio Oriente, dove il più brillante degli “strategist” ha la rogna e il più saggio dei diplomatici, per stare finalmente tranquillo, non vede l’ora di essere trasferito al confine tra le due Coree. Insomma, non si capisce il resto di niente. Le alleanze cambiano ogni quarto d’ora, i sondaggisti (vedi Israele) non ne azzeccano una, le milizie, tanto per non sbagliare, sparano su tutto quello che si muove e la mattina, quando aprite la radio, la curiosità è quella di sapere chi ha dichiarato guerra a chi. In quello che per la regione appare uno dei periodi più catastrofici da diversi anni a questa parte, il problema di fondo resta uno: la politica estera occidentale ha affondato le poche certezze che c’erano, senza riuscire a dare nuovi punti di riferimento affidabili, su cui costruire relazioni internazionali equilibrate. Oggi vi raccontiamo una nuova puntata dello zibaldone di fesserie fatte dal Triangolo delle Bermude della diplomazia, Parigi, Washington e Londra; un’area dove scompaiono elettromagneticamente saggezza e lungimiranza e dominano, invece, gli alieni delle Cancellerie. Avidi servitori di interessi e ambizioni nazionali o, nella migliori delle ipotesi, dilettanti allo sbaraglio. Dunque, anche i più distratti avranno sentito parlare della guerra civile nello Yemen, che poi, più concretamente, è una sanguinosa guerra religiosa nel cuore dell’Islam, tra sunniti e sciiti. La notizia più inquietante, però, è che questa crisi, classificata come “locale”, ne maschera un’altra, sull’orlo di esplodere: una bella guerra generalizzata tra Arabia Saudita e Iran, che già cova da lunga pezza sotto la cenere e che rischia di divampare da un giorno all’altro. Che c’interessa? Beh, se volete pagare la benzina e l’energia elettrica a prezzi non proprio popolari, allora prego, accomodatevi. Sì, perchè il primo risultato di quest’altro capolavoro raggiunto grazie alla dottrina della “esportazione della democrazia” potrebbe essere quello di vedere sprangato lo Stretto di Hormuz (Golfo Persico) da dove passa una montagna di barili di petrolio al giorno. Per ora, udite udite, tanto per non sbagliare, gli egiziani (notizia di prima mano, diffusa dagli interessatissimi israeliani) hanno già provveduto a sigillare il Mar Rosso, spedendo la flotta a controllare chi entra e chi esce dallo Stretto di Bab el Mandeb. È la porta d’ingresso al Canale di Suez. E non bisogna, certo, avere studiato alla Scuola di guerra di West Point per riuscire ad afferrarne il significato. Da quando El-Sisi, con un colpo di Stato e alla faccia della democrazia, ha messo in galera i regolari vincitori delle elezioni (i Fratelli Musulmani di Morsi) gli egiziani si sono stretti ai loro cugini sauditi contro la minaccia, non solo nucleare, iraniano-sciita. Obama si è invece scelto come compari d’anello proprio gli ayatollah, litigando col premier israeliano Netanyahu e cercando di scavargli la fossa sotto i piedi alle recenti elezioni. Anzi, il giorno prima, la Casa Bianca ha sdoganato Hezbollah (“non sono più terroristi”) e ha fatto trapelare addirittura una bozza di “gentlemen’s agreement” con l’ex arci-nemico Assad. Risultato: Netanyahu ha stravinto le elezioni e ha fatto comunella con l’Egitto e l’Arabia Saudita contro l’Iran. Intanto è definitivamente saltata per aria la Libia, affogata in una mattanza tribale, mentre il “Califfo” ha preso ad arruolare adepti a distanza, mettendo il suo marchio di fabbrica su attentati (come quello di Tunisi) dove, in teoria, non ha dovuto spendere manco i soldi dell’autobus per aiutare i terroristi. Tutto, infatti, si è svolto, per così dire, in “franchising”. Ma torniamo allo Yemen. È diventato il campo neutro dove si gioca la mortale partita tra sunniti e sciiti, sempre esistita, ma oggi riproposta alla grandissima grazie alle cosiddette “Primavere arabe”. Un fenomeno che, sotto la vernice libertaria e della sacrosanta ricerca della democrazia (ma solo da parte di alcuni) nascondeva conflitti atavici e odi tribal-religiosi (da parte di molti altri) che sono stati risuscitati dai brachettoni americani (col francese Sarkozy a fare da squinternato apripista). Una volta scosso il tappeto si è inevitabilmente sollevato un nuvolone di polvere, sedimentata dalla storia, facendo scatenare un caos totale e rinvigorendo istinti bellicosi e sanguinari che sembravano definitivamente seppelliti. Oggi i ribelli sciiti Houthi, spalleggiati da Teheran, hanno preso la capitale San’a e puntano decisi sul porto di Aden. Cosa che permetterebbe, indirettamente, agli iraniani di controllare l’ingresso al Mar Rosso e la strada per Suez. Ecco perchè la Marina egiziana si è mobilitata ed ecco anche perchè i sauditi hnno ammassato un esercito di soldati (150 mila?) ai confini con lo Yemen, minacciando di invaderlo. Coinvolti nel fronte sunnita anche Giordania, Sudan, Marocco, Emirati e, forse, pakistani. Gli ayatollah non sono certo stati a guardare e hanno lanciato all’Arabia Saudita un messaggio chiaro: se entrate nello Yemen salta il banco. A Teheran si sono presi qualche giorno di “riflessione” per decidere come reagire alle mosse di egiziani e sauditi. Al momento viene data per sicura la presenza nello Yemen del generale Qassem Soleimani, comandante delle Brigate Al-Qods, le unità d’élite dei pasdaran iraniani che già combattono in Siria con Assad e in Irak contro il “Califfo” (e a fianco degli americani). Ma il lato paradossale della vicenda è che unità regolari dell’esercito yemenita si sono unite ai ribelli sciiti che assediano Aden, utilizzando armi che gli Usa avevano fornito loro per combattere contro al Qaida. Obama e la tribù dei suoi tremila adviser, in questo momento, stanno in mezzo, a prendere scoppole da tutte e due i lati. Da una parte, ufficialmente, devono sostenere il legittimo governo sunnita (per non inimicarsi definitivamente egiziani e sauditi), dall’altro sono obbligati a fare buon viso a cattivo gioco con gli ayatollah, che li stanno aiutando a combattere lo Stato Islamico nell’Irak centro-settentrionale (Tikrit) e in buona parte della Siria (da Aleppo fino a Damasco). Se la confusione vi ha fatto venire l’emicrania non vi preoccupate. Si dice che pure Obama giri per la Casa Bianca portandosi appresso il boccione con le pillole. Di tutti colori: una per ogni problema.

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