Nelle “Supplici” di Eschilo a Siracusa le voci, gli accenti e le musiche di ieri e di oggi
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di Anna Mallamo
La melopea greca e l’accento che batte, incalzante, nel “cuntu” siciliano, le sonorità magrebine e i ritmi ionici. Gli endecasillabi, ondosi e rotondi, e gli ottonari. Il crepitare di trimetri e dimetri. Il greco, pastoso e antico e magnifico, e il siciliano, potente e saporito e sonoro. E poi il lamento d’agnello dei supplici, i gemiti inghiottiti dal mare, la risacca senza fine, come il dolore delle prefiche nere. La lingua del sentimento e la lingua del diritto, entrambe forgiate sulle sponde greche e magnogreche. Ci saranno tutti, i suoni dei Mediterraneo, nelle “Supplici” di Eschilo che apriranno, venerdì, il ciclo di spettacoli classici dell’Inda (l’Istituto nazionale del dramma antico) al Teatro greco di Siracusa: lo promettono Moni Ovadia – classe ’46, attore, drammaturgo, scrittore e compositore – e Mario Incudine – classe ’81, ennese, cantautore e compositore –, nelle vesti di regista e co-regista, o meglio entrambi di maestri concertatori, o ancora, come dice Ovadia, di maieuta e artefice: «Io son stato l’elemento catalizzatore, il maieuta, ma il parto l’ha fatto lui, artefice delle musiche e della traduzione in siciliano, oltre che eccellente direttore di attori».
Promette tantissimo, questo spettacolo che parte dalla tessitura di Eschilo nella traduzione di Guido Paduano – insigne filologo da tempo prestato alle ragioni del teatro – ma s’arricchisce di suoni, accenti, colori diventando un’ininterrotta “cantata”, per lo più in siciliano e greco moderno. Persino con un cantastorie in scena, che sarà lo stesso Incudine – «il mio eroe» dice Ovadia – , sorta di deus ex machina siciliano che guiderà gli spettatori, in un ulteriore gioco di prossimità e distanza, di narrazione e racconto che coinvolge altre tradizioni-traduzioni di mondi, codici, lingue e letterature.
Timori che qualcuno “non comprenda”, anche se tutta l’Italia, da Pantelleria a Bolzano, legge Camilleri, o che qualcuno – c’è sempre il purista di turno – condanni la “manipolazione” della tragedia?
«Ma no, la comprensione è questione di lana caprina – tuona Ovadia – . Il senso più intimo d’una lingua sta nel suono, non nel significato. Il teatro italiano nel mondo lo hanno portato Goldoni, col suo dialetto, Fo, col suo gramelot... ».
E anche il suono e la lingua son questioni d’accoglienza, scambio, integrazione: lo dice Incudine – grande studioso di tradizioni musicali ed egli stesso fin da bambino eccellente esecutore di serenate e lamenti – con luminosa chiarezza: «Abbiamo messo assieme un grande contenitore, ricomponendo tutte le stratificazioni di quella che definiamo la “musica mediterranea”. I ritmi magrebini e i dimetri acatalettici, la melopea greca e l’ictus percussivo siciliano, la metrica profonda che governa il “cuntu”, ma anche la tradizione apotropaica, i canti delle prefiche coi loro codici e regole, creando un suono unico, specifico di quest’opera».
Quindi dicono assieme: «Nelle Supplici il coro è in primo piano e nel teatro greco c’era una fortissima componente musicale. Noi ci siamo nutriti di questa musicalità». La stessa del dialetto siciliano.
Il rapporto di Ovadia con la Sicilia è forte e antico: si percepisce dal suo siciliano perfetto, ma più ancora da come degusta i vari dialetti isolani: «Quello rude e strafottente di Palermo, quello arioso di Catania, quello di Gela: un patrimonio di bellezza infinita. Noi abbiamo scelto per la scena un siciliano standard, molto dolce e sonoro ma, quando è necessario, drammatico». «Per me – confessa ancora – quando sento il siciliano è come se tornassi a casa». E oltre ai rapporti d’amicizia con tanti siciliani – su tutti il poeta di Bagheria Ignazio Buttitta – racconta d’antiche frequentazione infantili («Il mio primo amico quando venni in Italia dalla Bulgaria era messinese»), quando veniva sgridato da una vicina di casa in siciliano: «Adoravo quegli insulti, era una lingua magica. E poi io come ebreo ho un debito con la Sicilia: i siciliani furono gli unici a chiedere protezione per gli ebrei, secoli fa, sotto la dominazione spagnola, e crearono un linguaggio giudaico-siciliano».
Riaffiora il tema dell’accoglienza come scambio, arricchimento, integrazione. Tema forte non solo del ciclo Inda di quest’anno, ma di questo millennio tutto attorno a noi. «Accoglienza – dice Incudine – è anche accoglienza di saperi, suoni, linguaggi... Tutto quello che arriva arricchisce». E siamo al punto, al nodo, come sostiene Ovadia: «Io credo che questo è il nodo, la svolta: il supplice è protetto da Zeus, nel mondo greco, ma la stessa cosa vale per il monoteismo ebraico e cristiano. Nelle Supplici le Danaidi, straniere e “diverse”, sono accolte e protette, senza se e senza ma: nelle altre tragedie che componevano la trilogia la vicenda era articolata diversamente, ma... sono sparite. Questa, non a caso superstite, ci indica con grande chiarezza la direzione che dobbiamo prendere». Viene da pensare al caos che tutto disordina ma forse tutto governa, e che ha fatto incontrare qui, oggi, nel cuore d’un Mediterraneo sempre più Mare Monstrum questi grandi artisti e le loro voci, mescolate alle voci antiche della tragedia, e a quelle nuove di oggi, che si levano da tutti i lati: i migranti del mare, i fratelli greci stretti nella rovina.
«L’accoglienza – continua Ovadia – non deve conoscere limiti, dev’essere totale, dev’essere progetto. Io direi: progettiamo l’accoglienza, usiamo una parte di quelle risorse che i migranti mettono faticosamente assieme per comprarsi un viaggio sul barcone e facciamone microcredito. L’accoglienza non è il problema, è la soluzione». Riconvertire la migrazione in un’economia solidale, dunque. E l’economia solidale e non funesta è anche il tema che agita l’Europa ormai da tempo. «I flussi migratori, tanto, non si fermeranno. E chi dice “aiutiamoli a casa loro”, lo prenderei per le orecchie e direi: allora vai a cacciare via le multinazionali, che, d’accordo coi dittatori, depredano le terre e gli uomini. Cascami della peste colonialista! La storia dell’umanità è storia di migrazioni, e noi italiani dovremmo saperlo bene, dovremmo addirittura guidare tutto questo».
Poi, con la sua prodigiosa voce d’attore, Ovadia intona un canto dedicato a una tragedia del mare dimenticata, di quando i migranti eravamo noi, il naufragio del Sirio nell’estate del 1906: «E da Genova in Sirio partivano per l’America, varcare, varcare i confini». E viene da pensare che sì, la memoria funziona meglio con la musica e le canzoni e i racconti, da qualunque parte vengano, dai migranti del secolo scorso o dai greci di duemila anni fa.
D’altronde, la straordinaria modernità dei classici è celebrata ogni anno, nel teatro di Siracusa, e l’Inda continua questa meravigliosa tradizione. «Questa sola tragedia – dice Ovadia delle “Supplici” – avrebbe potuto fondare una civiltà, per i temi cruciali che mette in gioco! Eschilo è immenso, era avanti». Lui in scena sarà Pelasgo, signore della terra a cui le Danaidi supplici chiedono asilo, «re amletico, pieno di dubbi, che s’interroga: agire o non agire?». Accogliere o non accogliere? Mare nostrum o Triton?
Dunque, non c’è gesto in teatro che non sia “politico”?
«È impossibile – risponde Ovadia, nitido – La verità, la pietas del teatro ci salvano». E qui recita l’incipit d’un sonetto romanesco di Gigi Proietti: «Viva er teatro, dove tutto è finto, ma niente c’è de farzo».
Dove tutto è verità non c'è spazio per le menzogne, né della storia né della politica. E la speranza è che il suono “vero” di queste “Supplici” bussi forte al cuore di tutti.
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Nella foto di Maria Pia Ballarino: Moni Ovadia, in scena con i musicisti
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