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“Coming out”?
Dovremmo farlo tutti
e cominciare a vivere

di Anna Mallamo

Magari riuscissimo sempre a farlo, quando ci vuole, un “coming out”. Che poi, in sé, vorrebbe dire solo (solo?) «uscire allo scoperto, dichiararsi», ma nel nostro mondo tendenzialmente omofobo e codino ha finito per indicare unicamente la decisione di dichiarare la propria omosessualità. Una decisione quasi sempre sofferta, talora tormentosa, fonte di conflitto e persino dolore. Ma è “coming out” per ciascuno di noi ogni volta che «usciamo allo scoperto», dichiariamo chi siamo e cosa vogliamo e dove vogliamo andare. Con un libro, per esempio. Un libro che, per esempio, è una lunga lettera al padre morto quindici anni fa ma sempre vivo, e non solo nel ricordo, ma proprio in quel frammento d’identità paterna che abita nella nostra mente, sostanzia quello che Freud chiamava Super-Io, col suo sistema di regole, giudizi, valori. Un Tribunale Esistenziale che non chiude mai le porte. Forse ogni libro è un “coming out”, e il sesso non c’entra nulla ma moltissimo c’entra l’anima. Come nel caso di Carlo Gabardini e del suo “Fossi in te io insisterei” (Mondadori).

Gabardini, classe ’74, milanese, è un attore e un autore (ma anche youtuber, e militante dei diritti civili, e persino avvocato, in qualche modo...). Il suo personaggio più noto è Olmo della sitcom “Camera Cafè”, della quale è stato per anni anche soggettista e sceneggiatore; i suoi video su YouTube sono cliccatissimi, specie il primo, “La marmellata e la nutella (ci si innamora di chi ci si innamora)”: la migliore arringa che si sia mai sentita sui diritti civili degli omosessuali (e che fa seguito alla lettera aperta pubblicata da Repubblica il 31 ottobre 2013, dopo il suicidio d’un giovane omosessuale a Roma). Ha scritto per Paolo Rossi, Sabina Guzzanti, Maurizio Crozza. Ha scritto nella sua mente, per anni, una lunghissima lettera al padre – amatissimo baricentro d’una bella famiglia di cinque figli – che oggi è diventata il suo primo libro, appunto “Fossi in te io insisterei”. Che poi è una frase del padre, e non a caso. Perché il punto, per Carlo Giuseppe Gabardini detto “Pepe”, avvocato mancato ma forse no, indeciso cronico ma forse no, omosessuale ma forse, piuttosto, «pansessuale», è proprio questo: trovare il luogo interiore giusto per il padre, la sua cara voce, la sua presenza finalmente pacificata.

Una lettera, dunque – scrive Gabardini, che domani sarà a Messina alla libreria “Colapesce” alle 19 – che è «un dialogo continuo fra padre e figlio, fra la ragione e il torto, fra la tua memoria e il mio presente, fra il mio spietato super-Io e il mio minuscolo “me stesso”, debole, sopraffatto, da poco ferito mortalmente e pochissimo desideroso di ammettere il dolore».

Una lettera, un torrenziale dialogo al termine della quale il padre è “risorto/risolto”?

«In senso figurato bisogna un po’ ucciderlo il padre, come dice Freud. Io non voglio essere la sua brutta copia. Si risorge un poco assieme, coniugo un te in un me, e ho la sensazione che io stesso sto risorgendo. Dal mio primo “coming out”, che non aveva nulla a che fare con l’omosessualità ma riguardava solo la decisione di non studiare giurisprudenza e di frequentare invece la scuola d’arte drammatica e diventare attore, fino alla “Nutella”. Che poi mi è stato detto che è una vera e propria arringa: mi rendo conto che in fondo sono diventato un avvocato, ma coi miei strumenti, quelli che so usare. Io questa lettera la dovevo scrivere, dovevo fare i conti con mio padre».

«Dovevo scrivere»: lo si comprende leggendolo, e Gabardini conferma che «l’urgenza» è una delle caratteristiche della sua scrittura: «Ho bisogno che sia urgente». E questa bella urgenza, quest’inquietudine accesa e creativa che si riempie di parole («sono logorroico» si schermisce di continuo, sorridendo), questa contesa perenne tra «il magma di immagini/pensieri/avvenimenti e la lingua scritta», col suo sistema di scelte e rinunce, risulta molto nutriente per il lettore. D’altronde, tutta la lettera è un’operazione in qualche modo maieutica. «Questo libro – dice – è paradossalmente mio padre e mio figlio assieme, e in questo momento mi sento come una puerpera. Mio padre poteva restare lì nella mia mente per sempre, mimetizzato col mio Super-Io, giudicante, sempre insoddisfatto, spietato. C’era la tentazione di lasciarlo lì, ma dovevo dargli un luogo suo, dove poterlo andare a trovare quando voglio, dove salutarlo, dove parlare con lui».

La lettera ti ha aiutato?

«Mi ha cambiato certamente, aiutato non so. Uno dei miei “coming out” nel libro è “voglio avere un figlio”, cosa che non pensavo prima di cominciare ma ora sì. Devo smettere di essere piccolo, di essere figlio, per poter essere padre. Non puoi usare l’alibi di essere orfano per evitare di crescere».

Crescere è scegliere, spezzare l’attesa indeterminata e indefinita, volere. Crescere è anche cambiare, e il cambiamento è un po’ la chiave di volta del libro...

«Il libro è un inno al cambiamento. Si può anzi si deve cambiare. I “coming out” esistenziali sono difficilissimi: spesso ci creiamo un sacco di alibi per non cambiare, ma questo non basta: rischiamo che tutto ci imponga l’attesa, e rischiamo di vivere “più o meno” la vita che vogliamo. La lettera diventa una sorta di impegno scritto, a quel punto devi fare quel che hai detto. Devi cambiare. Certo c’è un prezzo, una doppia natura nella reazione degli altri al tuo cambiamento: da un lato ti lodano per il coraggio, dall’altro a volte lo vivono come una implicita, sottile critica al loro non cambiare, al loro darsi alibi».

Invece il Carlopepe del libro – che poi coincide con Carlo Gabardini («Tutta la verità e nient’altro che la verità, non è finzione») – cambia eccome, ridistribuendo i ruoli e le voci di padre e di figlio, e il countdown finale, che poi è quello del capodanno in cui decide di concludere la lettera, è molto commovente: l’autore cambia sguardo e ci consegna innumerevoli immagini del padre, frammenti di vita trascorsa, le foto dell’anima che portiamo per sempre dentro, gli amori risolti che diventano parte di noi. La parte migliore. E a volte fluiscono in un libro.

Un libro tuo, dopo tanta scrittura per altri. E un libro “logorroico”, tu che sei una sorta di autorità su Twitter, il luogo della sintesi per eccellenza.

«In fondo con Twitter ho cominciato a scrivere per me: 140 caratteri è un bellissimo esercizio di sintesi, una palestra di scrittura. E peraltro in qualche modo io sono stato adottato dai miei followers, tutti sono diventati mio padre. E questo libro è il tweet più lungo del mondo».

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Il libro

Ma intanto io la scrivo

«Ciao papà, non so se ti spedirò mai questa lettera, ma intanto la scrivo»: Carlo Gabardini, 15 anni dopo la morte del padre, gli scrive, dialoga con lui per potergli finalmente dire addio e cominciare a vivere.

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