Norma "classista", "discriminatoria", "anticostituzionale". Ha sollevato un polverone l'emendamento al ddl di riforma della Pubblica amministrazione, approvato in commissione Affari costituzionali alla Camera, secondo cui nei concorsi pubblici si terrà conto non soltanto del voto di laurea, ma anche dell'ateneo di provenienza. Ma lo stesso deputato firmatario della proposta, Marco Meloni (Pd), in serata, apre a un riesame della sua proposta, spiegando che la sua intenzione iniziale era solo quella di abolire il voto minimo. Pollice verso da parte degli studenti. "Questa norma classista - ha commentato Alberto Campailla, Portavoce Nazionale di Link Coordinamento Universitario - rappresenta un ulteriore attacco agli studenti e a quegli atenei, soprattutto del sud, già oggi fortemente penalizzati per via delle scarsissime risorse che ricevono dal Fondo di Finanziamento Ordinario". Per l'Unione degli universitari "si tratta, di fatto, di un forte indebolimento del valore legale del titolo di studio, che si sta facendo passare in sordina, con un vero e proprio colpo di mano". Voce fuori dal coro Studicentro che guarda, invece, con interesse alla discussione che si sta aprendo in Parlamento sul tema perché - sostiene - "spesso le università si adagiano sulla certezza di rilasciare un titolo legale che, invece, appare sempre più antiquato rispetto al mercato mondiale". Secondo un'indagine di Skuola.net ben 7 studenti su 10 sono assolutamente contrari a dare tutta questa importanza all'ateneo di provenienza. La possibile novità è vista con preoccupazione dai sindacati. "Se questa norma diventa definitiva - dichiara Marcello Pacifico, presidente dell'Anief - si violenteranno diversi principi costituzionalmente protetti, come la parità di accesso al pubblico impiego, il principio di uguaglianza e di ragionevolezza. Con il risultato che le università italiane, già in crisi di iscrizioni, diventeranno terreno per soli ricchi". In questa maniera - ne è convinto il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo - "diminuiranno ulteriormente le iscrizioni, soprattutto nel sud anche per l'assenza di una seria legge sul diritto allo studio. Siamo di fronte all'ennesima scelta classista del Governo a scapito dei figli delle persone che con grandi sacrifici mandano i propri figli alle università". Contrarietà anche dal fronte dei rettori. Il presidente della Crui, Stefano Paleari, già ieri ha espresso la sua posizione - "se esiste il valore legale del titolo di studio la laurea deve pesare allo stesso modo. Oppure hanno pensato di intervenire abolendo il valore legale del titolo di studio?". E oggi il rettore di Roma Tre, Mario Panizza, è stato altrettanto esplicito: "Propongono la brutta copia del modello americano. Considero una boutade la media del voto dei singoli atenei come indice di serietà". La questione, tuttavia, è tutt'altro che chiusa. "La mia originaria proposta emendativa prevedeva semplicemente - ha spiegato Meloni - l'abolizione del voto minimo di laurea quale filtro per la partecipazione ai concorsi pubblici. Successivamente, nell'ambito di una riformulazione dell' emendamento presentata dal relatore del provvedimento d'intesa col governo, si è introdotto un criterio di delega rivolto a parametrare il voto minimo di laurea a due parametri, da precisare comunque in sede di decretazione delegata: uno, forse eccessivamente ampio e tale da definire una differenziazione tra atenei, relativo a 'fattori inerenti all'istituzione', e un altro, certamente più chiaro e condivisibile, relativo al voto medio di laurea di 'classi omogenee di studenti'". "Credo sia opportuno, a questo punto, un supplemento di riflessione" ha concluso Meloni. Un ragionamento più ampio è auspicato anche a Viale Trastevere: "il tema del valore della laurea, data la sua delicatezza, deve essere inserito all'interno di una riflessione più generale che riguarda il mondo dell'università".
"I titoli di studio già adesso non sono tutti uguali quando si tratta di assumere un laureato. È esperienza quotidiana: le assunzioni tengono conto anche di altro", tuttavia secondo il rettore del politecnico di Milano, Giovanni Azzone, l'idea tener conto del 'peso' dell'ateneo tra i fattori da considerare nei concorsi pubblici non lo convince: "Applicazione complessa" perché "non si capisce come si potrebbe valutare il peso degli atenei. Con un ente esterno? La vedo dura", dice intervistato dalla Stampa e da Repubblica. L'emendamento al ddl sulla Pa ha aperto un dibattito sui quotidiani tra studiosi e docenti sul valore della laurea. Per il rettore dell'Università Palermo, Fabrizio Micari, è "un meccanismo pericoloso" che rischia di "creare università di serie A e di serie B" perché "fare università a Palermo non è come fare università a Milano o in altre città nelle quali il reddito pro capite è due-tre volte superiore". "La vera riforma non è tanto dare ai laureati una valutazione diversa in base all'università frequentata, anche se non c'è dubbio che la qualità della formazione offerta dagli atenei italiani sia assai eterogenea. La vera riforma sarebbe l'abolizione del valore legale del titolo di studio", sottolinea - su la Stampa - Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, che lo ritiene "un tappo che paralizza il sistema universitario". Di parere opposto l'archeologo Salvatore Settis, presidente del consiglio scientifico del Louvre: "Senza il valore legale del titolo di studio, la deregulation precipiterà il nostro sistema universitario nel caos" e "il pericolo è che chiunque abbia soldi e protezioni politiche possa improvvisarsi, mettere in piedi un ateneo e poi distribuire lauree. Con la menzogna che poi sarà il mercato a decidere chi vale e chi no".