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Economia, la Cina
vuole strafare

                                                                                                   di Piero Orteca

 Ognuno ha le sue “specificità”. E inforcare sempre e comunque gli occhiali della cultura occidentale, per leggere la realtà planetaria, sia quella riguardante le relazioni internazionali che quella che interessa la globalizzazione economica, ci può portare facilmente fuori strada. Pigliamo un colosso come la Cina. Le ripetute svalutazioni dello yuan, la moneta nazionale (per molti esperti “inaspettate”), sono state sbrigativamente etichettate come “un segnale di crisi”. Calma e gesso. Pechino non naviga, attualmente, col vento in poppa per tutta una serie di motivi. Ma definire “critica” la congiuntura economica di un sistema che cresce a ritmi ancora sbalorditivi (+ 7% di Pil all’anno) è da venditori di spazzole. E allora che dovrebbe dirsi dell’Italietta, ormai persa dietro tre cicli economici quasi catastrofici, dalla decrescita imponente alla successiva stagnazione da obitorio, fino a una “ricrescita” solo col contagocce, spacciata per “ripresa”? In realtà la Cina, dopo una fase di sviluppo in cui ha quasi fuso il motore, mandandolo fuorigiri, ora tira il fiato senza perdere di vista il “mantra”, ossessivamente scandito dai suoi leader: produrre ed esportare, a ogni costo e in barba ai tanti (mancati) Premi Nobel, che straparlano, senza guardarsi allo specchio e, soprattutto, spacciando raffazzonate sbobbe da bettola per “bouillons” da ristorante a cinque stelle. Dunque, la Cina ha la nevrosi ossessiva dell’export e per salvaguardare quella che giudica la strategia vincente del XXI secolo (che la porterà presto a essere la prima potenza del mondo) è pronta a fare giri di valzer, salti mortali e tuffi carpiati, anche se ciò può voler dire sminuire l’orgoglio nazionale, fino al punto di svalutare la propria moneta. “E chissenefrega!” esclamano sfrontatamente gli amici con gli occhi a mandorla. Pechino non guarda in faccia nessuno, paradossalmente manco se stessa, pur di ottenere la supremazia economica del pianeta. E a tutti i professoroni di poker nostrani, che sputano sentenze, diciamo che i conti si fanno nelle scale. E che conti! A luglio, rispetto all’anno precedente, i cinesi hanno accumulato un surplus commerciale in calo, ma pur sempre pari a 536 miliardi di dollari, mentre gli Stati Uniti di Obama sono andati in rosso per l’astronomica cifra di 742 miliardi. In pratica, gli americani campano firmando cambiali e vanno girando (orgogliosamente, dicono loro) accattonando semilavorati e prodotti finiti, grazie alla loro (presunta) solvibilità. Per ora gli è andata bene. Ma, se parliamo di debiti, stanno battendo tutti i record mondiali e prima o dopo potrebbero pagare le pere tutte in una volta. L’economia è strana, però ha un vantaggio assoluto rispetto alla politica praticata da tanti parolai parasacchi: i numeri contano. Eccome! E servono a zittire, implacabilmente e senza pietà, maestrine e maestrini dalla penna rossa di deamicisiana memoria. Dunque, una volta “la Cina era vicina”, ma oggi corre a razzo, anche quando sembra in crisi e svaluta. Magari entrassimo pure noi “in crisi” come Pechino. Cammineremmo sui dollari e non saremmo costretti a farci tassare l’aria che respiriamo, per fare andare avanti un carrozzone statale sbalestrato e pieno di buchi come una forma di svizzero extralarge. D’altro canto con una produzione industriale che segna un +6% (Italia -0,3%), un’inflazione al 2,5% (Italia al “rigor mortis” dello 0,1%, parente della deflazione), un deficit su Pil del -2,7% (Giappone, senti senti, -6,8%) e un tasso di disoccupazione più che fisiologico al 4% (Italia 12,7%) Pechino può permettersi di fare in economia quello che una volta facevano gli americani coi pellirosse: un massacro dopo l’altro. E così torniamo al succo principale di questa riflessione, che serve a chiarire le idee di chi ancora non si è accorto di cosa significhi “globalizzazione”. A dirla spiccia, riducendo i concetti più sofisticati all’osso, senza usare metafore bocconiane, chi produce e vende si arricchisce. Gli altri arrancano, fanno manifestazioni di protesta e danno la “caccia al colpevole” o al destino cinico e baro. Sul Wall Street Journal, William Kazer analizzando i bussolotti della Cina ha scritto che le autorità di quell Paese non sono per niente preoccupate. E assicurano che lo yuan rirenderà a salire “a comando”, cioè, aggiungiamo noi, quando l’export ricomincerà a macinare devastanti record come qualche anno fa, facendo schizzare l’incremento del Pil su valori a due cifre, mentre molti, in Europa, si arrabattano ancora con lo zero virgola. Naturalmente, a Pechino smentiscono che il vero motivo della svalutazione sia quello di scatenare un terremoto di decimo grado sul fronte dell’export, sotterrando tutti i concorrenti, a cominciare dal Giappone. Ma quello che va ripetendo il vice governatore della People’s Bank of China,Yi Gang, lascia il tempo che trova. Il vero obiettivo dei nipotini di Mao (sembra di parlare del Giurassico) non è vincere il campionato, ma quello di aggiudicarsi la Champions League dell’economia per i prossimi… settant’anni. Se al deprezzamento dello yuan aggiungete il fatto che il dollaro si sta rivalutando nei confronti di tutte le altre monete (a cominciare dall’euro) vi renderete conto che l’America di Obama rischia di non vendere più manco un set di padelle o un paio di mutande. Esageriamo? Un pochino, perchè gli Stati Uniti hanno dei settori (informatica, meccanica avanzata, chimica fine) dove restano leader. Ma… ma il trend non lascia per niente tranquilla la Casa Bianca, visto anche il buco, anzi, la voragine, che affligge la bilancia commerciale a stelle e strisce. E poi, gli scenari mutano in modo talmente repentino che azzardare previsioni o, peggio, dormire sugli allori, può essere un pericolo mortale. Alcuni analisti vedono nel capitalismo di Stato in salsa pechinese una sfida a tutto l’export mondiale, specie a quello dell’elettronica e delle telecomunicazioni. Una volta la qualità dei prodotti cinesi era “dubbia”, per usare un eufemismo, ma oggi è nettamente migliorata. E visti i prezzi stracciati che vengono praticati, tutta l’industria di settore, occidentale, giapponese e di qualche “tigre asiatica”(Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Thailandia, Indonesia) potrebbe subire un tracollo. Dei sudori freddi americani abbiamo già detto. Il mese prossimo il leader cinese, Xi Jinping, sarà a Washington per incontrare Obama e, statene certi, il presidente Usa si presenterà col cappello in mano. A elemosinare capitali? No. Ma, questo è sicuro, chiederà che il sistema economico cinese lasci qualche osso al resto della compagnia, prima che l’industria planetaria vada a ramengo

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