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Irak, verso una guerra civile sciita?

                                                                                                  di Piero Orteca

 I nostri lettori sanno di sicuro come la pensiamo sulle varie “Primavere arabe”. Per qualcuna “discutibile” e “accettabile” (Tunisia), ce ne sono state molte altre che hanno finito per avere effetti devastanti sui già precari equilibri esistenti nel Nord Africa, in Medio Oriente e nella Penisola Arabica. Dalla Libia alla Siria, i francesi in testa, seguiti a ruota dai britannici e dai braghettoni americani (tirati dentro, a forza, per la collottola) ne hanno combinate di cotte e di crude. E non certo per motivi “nobili”. Anzi, a raschiare un po’ di stucco dagli sbalestrati carrozzoni diplomatici occidentali, vengono fuori schifezze assortite, tali da far vergognare un’intera generazione di politicanti. Risultato finale: centinaia di migliaia di morti, diretti e “indiretti”, crescita esponenziale di un terrorismo talmente sanguinario (l’Isis) da far passare al Qaida per una succursale dell’Esercito della Salvezza, scatenamento (ancora non abbiamo visto niente) di flussi migratori biblici e, last but not least, scoppio della guerra mondiale sunniti-sciiti dentro l’Islam, con la transitiva impossibilità di capire con chi trattare per cercare di rimettere all’impiedi il baraccone. Insomma, peggio di così non poteva andare. E se Sarkozy ha ancora il barbaro coraggio di farsi vedere in giro, per la verità Obama, dopo aver capito l’antifona, ha cercato, finora senza esito, di metterci una pezza. Tempo perso. La situazione sul campo si va ingarbugliando in una matassona talmente piena di groppi, che manco il grande Alessandro, col suo famoso colpo di spada a Gordio, riuscirebbe a trovare una soluzione. Finora l’attenzione era tutta rivolta allo “sfarinamento” del campo sunnita, ma ora, udite udite, arrivano i “rumors” delle prime faide dentro l’universo sciita. Pessima notizia per la Casa Bianca, che proprio sul fronte sciita contava (e conta) per cercare di mettere la museruola al “Califfo”, al secolo Abu Bakr al-Baghdadi. Dunque, secondo i Sevizi di Intelligence israeliani è successo questo: la massima autorità religiosa sciita esistente in Irak, il Grand ayatollah Sayyid al-Husaini Sistani si sarebbe messo di traverso, ostacolando lo strapotere dei cugini iraniani e del suo principale “nemico”, la Guida Suprema di Teheran, ayatollah Alì Khamenei. La malanotizia ha tolto il seggiolone da sotto le terga a Obama e ha scatenato il panico in tutta la teocrazia persiana. Sistani in Irak è come il Papa a Roma e avercelo contro significa trasformare il blocco sciita in un’accozzaglia di fazioni. L’emergenza ha indotto iraniani e americani a spedire di gran corsa il generale Qassem Soleimani, capo delle Brigate al-Qods (in pratica, dei pasdaran), dal molto irascibile ayatolla Sistani. Ovvio l’obiettivo di spegnere i fuochi della crisi sul nascere. Sistani non sopporta che in casa sua, a Najef in Irak, comandino gli sciiti in arrivo dalla Persia. E qui dovete conoscere un’altra bavetta. Najef e Qom, le due città sante sciite, sono state sempre arci-rivali per quanto riguarda l’autorevolezza religiosa. Non solo. Ma Sistani contesta lo stesso Khamenei, giudicandolo un ayatollah “di serie B”. E siccome la lite è sempre per la coperta, gli sciiti irakeni non tollerano che Teheran armi (pesantemente) solo le milizie a lei legate a doppio filo. Trascurando le esigenze di quelle “made in Irak”, che fanno riferimento agli ordini impartiti da Sistani. Nel mazzo metteteci pure una querelle sulla figura del primo ministro. A Sistani sta benissimo quello attuale, al-Abadi, mentre gli iraniani, sotto sotto, fanno il tifo per il capo delle Brigate Badr, Hadi al-Ameri. Comunque sia, di fronte al crescere della tensione, Sistani ha varcato il Rubicone emettendo un fatwa (decreto) che gli consente di crearsi un suo esercito personale. All’appello hanno risposto “solo” una quindicina di gruppi armati, mentre almeno 45 milizie restano fedeli alle direttive di Teheran. Certo, fanno notare alcuni specialisti, se alle truppe di Sistani dovessero unirsi anche quelle di un altro pezzo grosso sciita, Moqtada al-Sadr, allora sul campo avremmo un pericoloso frazionamento del blocco sciita, che potrebbe sfociare in qualche scontro fratricida. Esasperando gli incubi di Obama che, sulla compattezza del fronte sciita, ha scommesso tutte le sue carte. Questo bailamme capita a sproposito, e cioè proprio mentre l’Iran sta producendo il massimo sforzo contro l’Isis, per riconquistare due centri di vitale importanza strategica, come Falluja e Ramadi. La notizia dell’ultima ora è che gli ayatollah riserveranno presto una sgradita sorpresa al “Califfo”, facendo entrare in azione i potenti missili terra-terra Zelzal 3b (nome in codice “Terremoto”) che hanno una devastante potenza di fuoco. Le batterie, secondo gli israeliani, hanno viaggiato alla chetichella su veicoli civili e sono state piazzate nell’area di Anbar. Naturalmente, il fronte di Baghdad è solo una delle preoccupazioni iraniane. L’altra è la necessità di trovare una soluzione in Siria ai guai di Bashar al-Assad. Rompendo gli indugi, gli ayatollah hanno predisposto due diversi piani d’intervento, da sottoporre alle controparti arabe e occidentali. Nel primo caso a essere coinvolti sarebbero i sei membri del Gulf Cooperation Council più Teheran. I colloqui dovrebbero svolgersi in un arco di tempo medio-lungo, senza interruzioni, e con la clausola di sospendere gli aiuti, di qualsivoglia natura, alle parti in lotta. Si tratterebbe, aggiungiamo noi, di una vera e propria boccata d’ossigeno per l’economia iraniana, costretta finora a inviare la bellezza di 40 miliardi di dollari per sostenere l’ingombrante amico Assad. La seconda opzione, invece, denominata “5+2”, punterebbe a coinvolgere Usa, Russia, Egitto, Arabia Saudita e Turchia, oltre al binomio Assad-Hezbollah e ai rappresentanti dei ribelli. I più informati sull’affaire siriano parlano di un radicale cambiamento di posizioni da parte iraniana. In particolare, gli ayatollah sarebbero disposti a sacrificare Assad, anche se non subito. Sarebbe loro intenzione proporlo a capo della Siria per un breve periodo di transizione. Per poi girare pagina. Il caposaldo dell’azione diplomatica iraniana è semplice: nessun accordo stabile può essere raggiunto senza coinvolgere pienamente i Paesi del Golfo e quelli arabi della regione. La novità di abbandonare Assad al proprio destino, dopo un interregno per salvare la faccia, agli occhi della diplomazia persiana potrebbe essere la carta vincente che mette tutti d’accordo. Gli osservatori internazionali giudicano “più morbide” le posizioni di Teheran, senza quelle asprezze diplomatiche che avevano caratterizzato la sua politica estera prima che fosse siglato l’accordo sul nucleare. Un esempio della buona fede iraniana recentemente acclarato dai Servizi segreti occidentali, riguarda l’uso delle devastanti “barrel-bomb”, fatto dai governativi in Siria. Ebbene, sembra proprio che gli iraniani non c’entrino e che, anzi, abbiano fatto opera di convincimento su Assad, invitandolo alla moderazione.

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