Questa volta la botta sullo sbalestrato carrozzone dell’Europa, sempre più incollato con lo scotch, potrebbe arrivare dalla Catalogna spagnola. Oggi si vota per le elezioni regionali e se a vincere dovessero essere gli autonomisti la musica, nei prossimi mesi, sia per Madrid che per Bruxelles, cambierebbe spartito. Più Marcia funebre di Chopin che Inno alla gioia di Beethoven, tanto per mettere subito le cose in chiaro. A Madrid la poltrona del premier Mariano Rajoy (Partido Popular) brucia come un falò. Visti i sondaggi, i 600 mila indecisi potrebbero essere l’ago della bilancia che consente ad Artur Mas, presidente e leader della coalizione indipendentista di “Junts Pel Sì”, di prevalere e di lanciare il processo di secessione. Certo, visti i chiari di luna, Rajoy poteva anche fare a meno di tirarsi appresso, all’ultimo comizio, l’ex presidente francese Sarkozy, campione di supponenza e di antipatia, la cui indigesta presenza potrebbe convincere a scegliere l’indipendenza anche il più sfegatato dei lealisti. Che queste elezioni regionali valgano per l’Europa più di tante altre consultazioni nazionali è poco ma è sicuro. Dalla crisi dell’euro a quella delle guerre regionali in Nord Africa e Medio Oriente, fino all’emergenza migranti, l’Unione ha dimostrato finora di essere un gigante dai piedi di cartone. Non si tratta di essere “pro” o “contro” un organismo sovranazionale che ha senz’altro dei nobili presupposti e delle ancora più nobili finalità: quelle di costruire una patria comune. Ma… ma, come dicevano i latini, “est modus in rebus”, cioè c’è modo e modo di realizzare le cose. E quello per l’Europa è stato scelto a capocchia. Volevamo fabbricare una Formula uno e invece ci ritroviamo per le mani un indegno catorcio, che arranca sul piano e rincula non appena la strada piglia a salire. Avete mai visto qualcuno che comincia a vestirsi mettendosi il cappello, o annodarsi la cravatta prima di infilarsi la canottiera? Beh alla Commissione UE si usa così, forse perché l’Unione nasce prima come “mercato” e solo dopo, a poco a poco e con malcelata insofferenza e diffuse diffidenze, come “patria”. Punto. Da questa semplice considerazione discendono tutte le altre. Non bisogna passare da Oxford per capire ciò che non va a Bruxelles, perché si tratta di magagne macroscopiche e in technicolor. La gente, i giovani, i disoccupati, i pensionati, le categorie sociali più deboli, insomma, esigono risposte. Non prediche. Quelle sono gratis. La UE cammina come le statistiche di Trilussa, tutti mangiano mediamente un pollo, ma c’è chi se ne pappa quattro e chi non vede nemmeno un osso, manco a cercarlo col binocolo. La Grande Germania di Frau Merkel, per farla corta, con un tasso di disoccupazione del 6,4%, se ne frega assai di ciò che succede nel resto dell’Unione. Spagna in testa (22,2%). Questo sviluppo “asimmetrico” (così dicono i “tecnici”, perché fa fino, ma si tratta in realtà di un caotico assalto all’albero della cuccagna) genera molte insoddisfazioni. Chi, anche nello stesso Stato, resta indietro, ma è convinto che potrebbe marciare a velocità doppia, prima s’arrabbia, poi protesta e, alla fine, minaccia d’andarsene per conto suo. E la solidarietà nazionale? Quella resta nella bocca di tutti e nelle tasche di nessuno. Ergo: gli Stati centrali perdono forza e si sciolgono nel pentolone dell’Unione Europea, dove ribolle una sbobba che qualcuno mangia, qualche altro trangugia turandosi il naso e molti invece risputano, dando di stomaco. La reazione più ovvia è il ritorno alla sicurezza offerta dal “paesello”, dalla piccola comunità o, se vogliamo essere più scientifici, ai vantaggi che emanano dal regionalismo. Ovviamente quello delle aree più ricche, anche se non si tratta solo di borsellino. Le autonomie si costruiscono su storia, cultura e tradizioni che delineano precise “identità”, di cui andare orgogliosi (o su cui recriminare, quando le cose non girano). L’Europa è piena di esempi di questo tipo. Ragion per cui, Scozia, Irlanda, Fiandre, Vallonia o Catalogna, tanto per citare casi specifici, sono realtà con cui una volta si confrontavano solo i rispettivi Stati-nazione, ma che adesso vedono dall’altro lato della barricata anche l’Unione e la sua armata brancaleone di teste-quadre e burocrati. Insomma, gli scenari si complicano e i nuovi regionalismi sono tutti pervasi da un diffuso sentimento di euroscetticismo, per non dire di eurofobia. Messa la cornice, andiamo al quadro specifico, la Catalogna. Nel mare magnum della crisi, è la regione iberica che cresce di più. Dire perché potrebbe essere facile e difficile nel contempo. Quella catalana è una società che ha un grande passato mercantile e imprenditoriale, con il culto del lavoro e una tradizione di felice rapporto con le autorità locali e di relazioni più tormentate con quelle centrali, castigliane. La rivalità infuocata esistente nel calcio tra Real Madrid e Barcellona è un po’ lo specchio dei conflitti esistenti, tra lo Stato spagnolo e la regione che si affaccia sul Mediterraneo. A cominciare dall’economia; tasse e qualità dei servizi in testa. Si tratta di scenari che esulano dalle matrici ideologiche dei partiti in lizza, alcuni dei quali promettono l’indipendenza “entro 18 mesi”. Parliamo del blocco autonomista formato da Convèrgencia Democràtica e dei sinistri-sinistri di Esquerra Republicana, che i sondaggi danno in vantaggio. Vista la mala parata, i due partiti tradizionalmente nemici da sempre, i Popolari di Rajoi e i Socialisti di Pedro Sánchez, hanno raggiunto un’intesa per scongiurare il potenziale rischio di secessione. Se il blocco che persegue la scissione dovesse ottenere la maggioranza assoluta, ha già detto che metterà subito in moto il meccanismo istituzionale per l’indipendenza. Ipotesi che il governo centrale di Madrid ha già bocciato, appellandosi alla Costituzione. Molti analisti pensano che Artur Mas ora intenda massimizzare un eventuale successo elettorale, obbligando il prossimo governo di Madrid a trattare e a mollare ulteriori concessioni dopo le elezioni politiche generali, che si terranno fra un paio di mesi. Qualcuno adombra anche il rischio di un vero e proprio muro contro muro, col governo centrale che avrebbe minacciato (dietro le quinte e a mezza bocca) di poter reagire fino ad arrivare alla sospensione dell’autonomia per la Catalogna. Una vera e propria dichiarazione di guerra, di cui nessuno sente il bisogno. Meno che meno l’Europa, la quale continua a essere assediata da emergenze che spuntano fuori, quotidianamente, come i porcini dopo pioggia, sole e vento. Anzi, come le amanite.