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Omicidio Alfano:
nuovi indagati
dopo 22 anni

di Nuccio Anselmo

«Alfano parlava assai». Ventidue anni di false verità. Ventidue anni e una ricostruzione che non stava in piedi, affogata in una interminabile teoria di processi. Al centro della questione di un povero morto ammazzato da Cosa nostra barcellonese sempre lo stesso concetto: certezze sul mandante, dubbi sul killer. E adesso la scenario che cambia “ufficialmente” dopo tutto questo tempo.

La Procura antimafia di Messina ha iscritto nel registro degli indagati il 41enne barcellonese Stefano Genovese, killer “a pagamento” e fedelissimo esecutore degli ordini di Giuseppe Gullotti, con l’accusa di aver preso parte all’omicidio di Beppe Alfano, il cronista ucciso alle dieci di sera dell’8 gennaio del 1993 in via Marconi a Barcellona Pozzo di Gotto.

L’ottavo e ultimo giornalista ucciso dalla mafia in Sicilia, in una storia di limpidi taccuini sporcati di sangue che comincia nel 1960 con l’uccisione di Cosimo Cristina e passa attraverso i cadaveri dilaniati e dimenticati di Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, Mauro Francese, Pippo Fava, Mauro Rostagno.

L’iscrizione “top secret” di Genovese da parte dei magistrati della Dda peloritana Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo nel registro degli indagati, con l’accusa di omicidio, è un fatto di una portata oggettivamente storica.

Se si pensa per esempio ai 22 anni che sono trascorsi dall’uccisione di Alfano e alla sentenza definitiva che vede in carcere il mandante, il boss barcellonese Giuseppe Gullotti, condannato a trent’anni, e quello che fino all’altro ieri era ritenuto il suo killer, l’autotrasportatore barcellonese Antonino Merlino, che sta scontando la pena di ventun anni e mezzo.

E pensare poi che questa clamorosa svolta nell’inchiesta “ter” sulla morte del giornalista sia solo frutto delle dichiarazioni prima del boss barcellonese Carmelo D’Amico e poi del fratello Francesco – di cui abbiamo ampiamente scritto in queste ultime settimane –, è probabilmente molto riduttivo.

Ogni magistrato sa, e a capo della Procura di Messina c’è Guido Lo Forte, che da anni si occupa delle raffinate pieghe criminali di Cosa nostra e dei suoi depistaggi concordati anche con lo Stato, che l’iscrizione diventa un’arma a doppio taglio se non si riesce a “vestire” l’accusa nella giusta maniera, perché incombe lo spettro dell’archiviazione.

Accanto alle dichiarazioni dei due fratelli D’Amico c’è probabilmente l’attività di riscontro che in questi mesi è stata effettuata dagli investigatori della Mobile di Messina, che si stanno occupando da anni del filone d’inchiesta “Alfano ter”, e dei carabinieri del Ros di Messina che da anni seguono invece la maxi inchiesta “Gotha”, arrivata alla quinta e non certo ultima puntata, sulla mafia barcellonese.

E molto probabilmente, questa non è l’unica posizione che potrebbe essere suscettibile d’iscrizione nel registro degli indagati per l’omicidio Alfano. Carmelo D’Amico lo ha detto chiaro: quella sera, Genovese, era in strada con un complice.

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Il delitto

Quella sera alle 22in via Marconi

Ventidue anni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto in un anno ci furono trenta morti ammazzati, uccisi per mano della mafia. Tra di essi, anche Beppe Alfano, un giornalista (il tesserino gli venne dato alla memoria), corrispondente per “La Sicilia”, la cui vita fu stroncata l’8 gennaio del 1993 con tre pallottole calibro 22, di cui una in bocca. Beppe Alfano, quando è stato ucciso, aveva appena 42 anni, era sposato e aveva tre figli. Fu ammazzato sotto casa, in via Marconi, intorno alle dieci di sera, mentre era sulla sua Renault 9 amaranto piena zeppa di adesivi.

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