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Turchia, il Paese davanti a un bivio

                                                                                                 di Piero Orteca

Una volta, dalle nostre parti, si diceva “mamma li turchi”, a significare uno stato di panico quasi generalizzato. Oggi, invece, in Turchia (guarda tu i casi della vita) si grida “mamma li curdi”. E così, in due parole, abbiamo riassunto il “backstage” delle elezioni politiche che si tengono oggi, dopo solo cinque mesi da quelle precedenti (e inconcludenti), che hanno lasciato il Presidente islamista Tayyp Erdogan in mezzo al guado, a prendere sganassoni da amici e nemici. Certo, quello curdo è uno dei piatti forti. Ma non pensiate che le altre pietanze disseminate sul traballante desco della politica turca siano meno avvelenate: il tormentato confronto tra i secolaristi eredi di Ataturk e i musulmani duri e puri, la guerra siriana ante portam e il suo flusso inarrestabile di profughi, un clima di violenza sociale che ha raggiunto il suo picco col recente attentato di Istanbul (102 morti), una congiuntura economica che definiremmo con qualche chiaro e molti scuri, i rapporti internazionali sempre più confusi dove non si individuano i veri alleati e quali possano invece considerarsi i potenziali avversari. Insomma, nessuno ci capisce più il resto di niente, in Turchia. Figuratevi all’estero, dove la compagnia di processione della diplomazia occidentale è più confusa che persuasa e brancola nel buio totale. I “turcologi” più esperti dicono, a mezza voce, che nemmeno Nostradamus oggi sarebbe in condizione di prevedere cosa succederà nei Palazzi del potere dell’antica Sublime Porta (come una volta veniva definito l’Impero Ottomano). Queste elezioni, in definitiva, sono un vero e proprio braccio di ferro tra Erdogan, il suo AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) e metà della popolazione (perlopiù contadina) che guarda, sia pure senza fondamentalismi dilaganti, al Profeta, e l’altra metà laica del Paese (fatta di abitanti delle grandi città, studenti, ambienti accademici, militari, commercianti e imprenditori). Il clima, dicevamo, è carico di tensione. L’altro giorno un giornalista finlandese è andato giù pesante, durante una ruvida intervista a Erdogan. Gli ha detto: “Ormai la gente la conosce e pensa che lei voglia trasformare il Paese in una dittatura”. E lui, pronto ha replicato: “Se la Turchia fosse veramente una dittatura lei non mi farebbe questa domanda”. La verità è che a Erdogan piace veramente il sibilo dello scudiscio, almeno così dicono notizie di primissima mano offerte da diplomatici e giornalisti occidentali che vivono e lavorano ad Ankara e Istanbul. Da tredici anni sulla cresta dell’onda, il personaggio è di modi spicci e non si fa certo saltare la mosca al naso. Il problema vero è che ha spaccato il Paese: metà lo ama e l’a ltra metà lo odia. Realtà fotografata dai sondaggi, che negano al suo partito la possibilità di arraffare la maggioranza assoluta. Bisognerà vedere i risultati degli avversari: il Partito Popolare Repubblicano, il Movimento Nazionalista e il Partito Democratico del Popolo. Ma proprio questo clima rispecchia un’altra evidente anomalia. Erdogan è il Presidente della Turchia, cioè di tutti i turchi; ma in realtà parla e agisce come se fosse il primo ministro e il capo di un partito (l’AKP, è ovvio). Che il vento sia girato lo hanno capito, in primis, gli europei, mentre gli americani (al solito) faticano ad afferrare alcune note politiche caratteristiche e continuano a trattare Erdogan come se nulla fosse. E invece sono cambiate molte cose. Lui, la sua politica estera, ma soprattutto una deriva diplomatica imbevuta di megalomania, che lo porta a guardare la UE di sguincio, Obama fisso negli occhi, da pari a pari, e Putin come un possibile ex nemico con cui, se sarà il caso, ci si potrà alleare. L’Erdogan definito “r i f o rmista” dai frettolosi analisti di foreign, policy, insomma, si è squagliato come un ghiacciolo nel microonde. Per carità, alcune promesse le ha mantenute, soprattutto in economia, dove, sfruttando la rendita di posizione del suo Paese è riuscito a triplicate il Prodotto interno lordo, portando il “per capita” a 10 mila dollari. Ma alcune sue mosse inziali verso i curdi (come l’utilizzo della lingua nelle scuole) sono state presto messe in freezer. La vostra percezione di Erdogan come “riformista” è distorta, afferma Soner Cagaptay del Washington Institute for Near East Policies. “Ha brutalizzato tanti di quegli attivisti politici, secolaristi, liberali, progressisti di sinistra, socialdemocratici, socialisti, Alawiti e curdi che, messi tutti assieme, fanno la maggioranza della popolazione”. E anche se qualcuno, come Nebi Mis del think tank (governativo) “Seta” lo difende, dicendo che non è l’unico ad avere inasprito il confronto politico, altri ricordano che, solo nell’u l t imo anno, oltre 100 persone, tra intellettuali, giornalisti e studenti sono finiti sotto processo “per avere insultato il Presidente”. Si diceva dei “polls”, cioè dei sondaggi. Tutti gli analisti parlano della impossibilità che dalle elezioni esca una chiara maggioranza. Se questi saranno i chiari di luna e se Erdogan vorrà evitare di fare la figura di Pulcinella, indicendo per la terza volta in un anno nuove elezioni, allora l’unica strada percorribile resta quella di un governo di coalizione. Che il presidente-Pascià vede come il fumo agli occhi, perchè nella sua personalissima dottrina costituzionale, il fatto di avere vinto le presidenziali, nel 2014, con oltre il 51% dei voti lo autorizzerebbe a uscire dal seminato. Come e quanto non si sa. Lui è convinto di vincere, anche perchè le sue milizie personali stanno passando al setaccio le campagne e le più remote province, con i volantini elettorali in una mano e con un nodoso bastone nell’altra. E anche se i suoi “adviser” lo incoraggiano, gli osservatori politici indipendenti prevedono che le elezioni di questo 1. novembre finiranno come quelle dello scorso 7 giugno. Cioè, con un nulla di fatto. Episodio da non sottovalutare, qualche settimana fa una squadraccia di sostenitori di Erdogan ha assaltato la redazione di Hurriyet, il più importante giornale turco, colpevole di non essersi troppo allineato al verbo del Presidente. Insomma, se non è zuppa e pan bagnato. Brutto segno. In genere, quando si comincia col pestare i giornalisti poi, quasi a giro, come un’i n e l u ttabile catena, si finisce per cambiare i connotati a tutto il resto della compagnia.

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