Solo pochi giorni fa abbiamo celebrato la Giornata contro la violenza sulle donne: femminicidio, molestie, abusi, maltrattamenti, violenza psicologica. Spesso frutto avvelenato della dipendenza economica, quella a cui l’altra violenza – la violenza della crisi – condanna soprattutto le donne, che sono sempre l’anello debole, l’ammortizzatore familiare e sociale, il livello più basso (e ampio) delle piramidi economiche e sociali. Ma siamo, noi donne italiane, europee, occidentali, sulla breccia: lottiamo da molti anni, e non consentiremmo a nessuno di mettere in forse quello che ci siamo conquistate. Nessuno si sognerebbe di discutere il nostro diritto a ricevere un'istruzione, a lavorare, a scegliere la nostra vita sentimentale e sessuale, a sposarci o convivere o restare da sole, a muoverci e viaggiare come ci pare (e spiace che certe recenti campagne “antifemministe” disconoscano quanto si è dovuto lottare per queste cose che, oggi, paiono basilari e indiscutibili, ma solo sessant'anni fa non lo erano affatto). Ed è con dolore che dobbiamo constatare quanto, invece, intere regioni del pianeta siano indietro, e tengano le loro donne sprofondate nel buio di un Medioevo senza spiragli. Regioni intere in cui una cultura profondamente, anticamente misogina continua a conservare il controllo del corpo e della volontà delle donne, esiliandole dallo spazio pubblico, infantilizzandole per tutta la loro esistenza, colpevolizzandole per il solo fatto di esistere e di costituire una sorta di incessante “disturbo” all’autocontrollo maschile. Una misoginia che si allea con la religione – di solito piegando ad arte e a convenienza i precetti, o cercando nelle scritture passi che sostengano palesi violazioni di qualunque principio non solo di giustizia, ma persino di umanità – e con la politica, di fatto costituendo un regime ulteriore difficilissimo da combattere.
Di questi temi dolorosi si occupa, con una grazia impetuosa che emoziona (e che ridà un senso, qualora ce lo fossimo scordato, alla necessità di una “sorellanza”, che significa ascolto, comprensione, informazione, sostegno alle altre donne), la giornalista e scrittrice egiziana Mona Eltahawy, 48 anni, nel libro “Perché ci odiano” appena pubblicato da Einaudi (traduzione di Alessandra Montrucchio).
Non usa eufemismi, non cerca distinguo la Eltahawy, fin dal titolo: è “l’odio” il motore immobile, l’origine vera e prima della sostanziale schiavitù delle donne in larga parte della Terra, anche se il libro si concentra – con dovizia di dati e cifre – sui paesi di lingua araba del Medio Oriente e del Nord Africa, che l’Autrice conosce molto bene, avendo vissuto in Arabia Saudita e in Egitto. Paesi molto diversi tra loro per sistema di governo, reddito pro capite, storia, ma accomunati dal trattamento indegno che viene riservato alle donne: escluse dallo spazio pubblico, in cattività nello spazio privato. Con modalità diverse, alcune legali (tra le più odiose: la necessità per le donne di un “guardiano”, che autorizzi qualunque cosa, persino ricevere cure mediche; l’impossibilità, in Arabia, di guidare e dunque spostarsi liberamente), altre di fatto autorizzate, persino in presenza di una legislazione che teoricamente le combatte (la più atroce: la mutilazione genitale). Dappertutto, il sostanziale maschilismo che permea la cultura sociale e familiare, talmente pervasivo da essere interiorizzato dalle donne, che talora cooperano alla propria segregazione e tramandano alle figlie lo stesso codice che le opprime. Un codice contro il quale anche la Eltahawy ha lottato, dentro di sé prima che fuori, nella lotta comunque impari contro un sistema politico e un sistema religioso (non solo, non necessariamente islamico) che trovano il loro punto di saldatura nella misoginia.
Una lotta che, qui dal nostro osservatorio privilegiato dell’Occidente, noi vediamo molto poco: appena un... velo. E questo libro ci è molto utile, proprio in questi giorni di paura in cui si radicalizza il tema dello scontro di civiltà, e il velo portato dalle donne islamiche ne diventa un simbolo e un protagonista. Possiamo noi, donne emancipate, considerare serenamente una cultura che impone alle donne di velarsi per mostrare “modestia” e non turbare il maschio? La mia coscienza di donna libera non trova sano questo pensiero, lo trova profondamente lesivo della libertà: io devo poter prendere parte allo spazio pubblico col mio viso, i miei capelli, la mia libertà di acconciarmi e abbigliarmi senza essere considerata un pericolo o in pericolo (che poi in Occidente si sbandieri la libertà di non mettere il velo ma di operarsi per avere le labbra a canotto o indebitarsi per comprare certe scarpe o certe borsette, questo fa parte delle ulteriori schiavitù, di altro segno, di cui non come donne ma come esseri umani dobbiamo liberarci, ma si lotta anche per questo).
Né il dovuto rispetto per le “diversità culturali” può rendermi cieca. Anche la mutilazione genitale è una diversità culturale, o la norma per cui a una donna spetta un’eredità dimezzata: sono forse accettabili? Eppure il “relativismo” esasperato provoca talora imperdonabili distorsioni del giudizio, persino nelle persone più progressiste e libertarie.
Ma nemmeno è tollerabile che la “questione del velo” diventi il pretesto delle nostre peggiori destre xenofobe per campagne islamofobiche e razziste. Una preoccupazione che anche l’Autrice ha: «Si appropriano di un argomento che sanno essere di grande impatto emotivo e facilmente vendibile a quegli europei spaventati da immigrazione e crisi economica». E che sia colpevolmente cavalcato dagli islamofobi o colpevolmente ignorato da chi vi legge una forma di islamofobia, è un argomento che non viene considerato «per ciò che è: una questione di diritti femminili».
Anche il diritto di portare il velo (l’autrice ha scelto di portarlo a 16 anni e di smetterlo a 25) dev’essere, appunto, un diritto. Ma in troppe regioni del mondo l’espressione «diritto femminile» resta un tragico ossimoro. Persino quelle in cui le donne sono scese in piazza con gli uomini per chiedere un cambiamento, per fare addirittura assieme una rivoluzione: rivoluzione che raramente si è propagata negli spazi privati, dove il maschilismo non è messo socialmente e culturalmente in discussione.
Il libro di Mona Eltahawy è salutare, qui e ora, per tante ragioni: ci racconta, anche con la forza dell’autobiografia (l’Autrice è stata vittima di violenza, proprio nella stagione del “cambiamento” in Egitto, ma la narrazione di tutto il suo percorso, dentro i tabù e le regole interiorizzati, ci è preziosa), cosa sia la condizione femminile in tanta parte della Terra, e quanto le contrapposizioni tra religioni o civiltà siano pretestuose e fuorvianti. Semmai quanto valga sempre, invece, la contrapposizione ultima, o prima, del pianeta: tra i ricchi e i poveri, e in cui le donne sono sempre le più povere dei poveri e le più sottomesse dei sottomessi. Ci invita a riflettere, ad accogliere punti di vista diversi, a fortificare le nostre ragioni, a pensare quanto sia indispensabile la rivoluzione ultima, o prima: quella degli esseri umani donne.