O rmai è diventato un vero “puzzle”, un rompicapo che affligge gli Stati maggiori occidentali: più bombe scaraventano sulla capa dell’Isis e più forti di prima diventano le milizie del “Califfo”. Manco se gli alti esplosivi da cui sono bersagliati fossero delle bevande energizzanti, i tagliagole di al-Baghdadi escono da ogni buco esistente sottoterra e ritornano all’assalto. Ricordano i paracadutisti tedeschi di Kesselring, a Monte Cassino, capaci di sopravvivere all’ottuso bombardamento della famosa abbazia e di continuare a far vedere i sorci verdi prima ai neozelandesi e poi ai gloriosi reggimenti polacchi del generale Anders, che andavano all’assalto indomiti e sprezzanti del pericolo. Interpellati dagli occidentali bisognosi di “capire”, gli israeliani hanno fatto le loro indagini e dato le loro spiegazioni. Abbastanza convincenti. Gli aerei americani tornano alla base, molto spesso, senza avere sganciato bombe e missili o, al massimo, dopo averne lanciato la metà. Faticano, si dice, a identificare gli obiettivi e per non tirare a casaccio preferiscono rinunciare. I russi, più abili, giocano con due mazzi di carte. Solo un terzo dei loro attacchi prende di mira l’Isis, mentre il resto viene riservato agli altri ribelli anti-Assad “moderati” o affiliati ad al-Qaida (come al-Nusra). Tutto questo fino all’altro giorno, quando, tenendo la contabilità rigorosa di un ragioniere, a Tel Aviv hanno notato che i russi, con l’arrivo del sottomarino “Rostov-on-Don”, hanno cominciato a bersagliare Raqqa (la capitale del “Califfato”) con i micidiali missile Kaliber. E i francesi? Ostriche e champagne costano, ma anche le bombe valgono un botto, nel senso che fanno “boom” e le paghi a peso d’oro. Per cui, colpiti da pediculosi… risparmiano. Gli israeliani, con le lingue affilate come rasoi, commentano che i transalpini hanno sganciato in un’occasione venti bombe e in un’altra, economizzando, circa dieci. «Nessuna delle quali – aggiungono velenosamente a Gerusalemme – ha raggiunto l’obiettivo. Insomma, avessero tirato pietre, fanno intendere i superspecialisti della Israeli Defence Force, forse avrebbero fatto più danni. I francesi, si sono limitati a poche scarse sortite, non ripetute, per “mostrare la bandiera”, prima di tornare a stravaccarsi sulla portaerei Charles De Gaulle. I migliori? Gli inglesi. Ma fanno missioni col contagocce. Morale della favola: dopo che i soli americani hanno sganciato “almeno 28 mila bombe e missili” (forse non li pagano…), l’Isis gode ancora ottima salute e, anzi, in certe aree è più forte di prima. Perchè? Beh abbiamo visto che gli americani sono “generosi” ma incapaci, i francesi imprecisi e taccagni e gli inglesi si impegnano col contagocce. Forse perché i bombardamenti coincidono con l’ora del tè. O con quella della canasta. Ma anche i miliziani dell’Isis hanno preso le loro misure dopo le batoste dell’anno scorso. E così, con un po’ di fantasia, si sono messi a costruire carri armati… di cartone e a caricare i convogli con bidoni rigorosamente vuoti. Le perdite? Un po’ di lamiera e qualche tonnellata di carta straccia, manco fossimo al Carnevale di Viareggio. I rifornimenti “seri” invece viaggiano di notte, preferibilmente senza luna, e passano sotto il naso dei “top gun” occidentali. Gli israeliani hanno anche scoperto che il “Califfo” ha arruolato, a suon di dollari, numerosi ex ufficiali di Saddam Hussein per la lo ro abilità di “scenografi” militari: erano maestri nel costruire falsi bersagli al tempo della guerra Iran-Irak. Così, a via di forbici, cartone e ferro filato, ancora oggi ingannano un nemico “supertecnologico”, ma poco astuto, per usare un eufemismo. Tra l’altro, le milizie dell’Isis si spostano continuamente col buio, attraversando Tigri ed Eufrate in una continua girandola di trasferimenti. Last but not least, i jihadisti hanno cominciato a costruire strade, stradine, trazzere, sentieri e tunnel, in sostituzione di tutte le infrastrutture colpite dai bombardamenti, col risultato di continuare a rifornire e a rifornirsi senza troppi problemi. Petrolio di contrabbando: ci sono dentro in molti, fino al collo, a cominciare dai turchi e anche dai curdi. Solo che quando le cisterne saltano per aria, l’Isis non perde un dollaro, perché si fa pagare in anticipo e rischia solo chi acquista il greggio. Sul piano strettamente operativo, il fallimento dell’offensiva aerea, condotta dagli americani e abbozzata dagli altri occidentali, significa necessità di dover cambiare strategia. E così, contraddicendo tutte le sue precedenti dichiarazioni (e promesse), Obama ha dovuto ammettere che sì, forse si presenterà l’esigenza di mandare un certo numero di truppe di terra Usa in Siria e Irak. In un primo momento tutto è stato mascherato con il solito ritornello del “nucleo di istruttori”. Balle. Ora si è saputo che Washington, dopo l’intesa coi russi, sta addirittura costruendo una nuova base aerea ad Abu Hajar, vicino alla città siriana di Rimelan, ricca di pozzi petroliferi (e dove se no?). Probabilmente, visti gli scarsi effetti ottenuti dai raid aerei finora effettuati, alla Casa Bianca pensano di aumentare la pressione sulle due importanti città controllate dal “Califfo”, Raqqa (distante 340 chilometri) e Mosul (ad appena 84 chilometri in linea d’aria). Si tratta di una mossa che conferma il Patto sull’Eufrate tra Usa e Russia (a ovest Mosca, a est Washington), anche perché le piste in costruzione (in un’area lunga 2,5 chilometri e larga 250 metri) sono chiaramente destinate all’utilizzo di caccia e bombardieri. Chi difenderà la base? Non certo i curdi, ma sicuramente truppe scelte degli Stati Uniti, come già verificatosi coi russi a Khmeimim (vicino Latakia) e ad al-Shayarat (Homs). Tra le altre cose, la scelta di militarizzare Rimelan significa mettere in sicurezza circa duemila pozzi di petrolio, che rappresentano 400 mila barili di greggio al giorno. In sostanza, il 60% della produzione siriana. Gli analisti fanno poi notare un fatto di non secondaria importanza: così come stanno facendo i russi a Kobane e Afran, anche gli americani, appoggiandosi sui curdi del nord-est della Siria, finiranno per entrare in rotta di collisione con la Turchia di Erdogan. Anche perché l’altra grande base aerea Usa nell’area si trova a Irbil, capitale della regione autonoma curda dell’Irak. Un’altra importante partita gli americani la stanno giocando per interposta persona, grazie all’Arabia Saudita, per quanto riguarda la normalizzazione dei rapporti tra l’Iran e i ribelli moderati sunniti, che si contrappongono all’Isis. Ma qui la strada resta in salita, nonostante anche questo capitolo faccia parte dell’accordo più complessivo tra Stati Uniti e Russia.
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