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Obama mette le mani avanti

N on c’è niente da fare: la lingua batte dove il dente duole. E nel caso di Obama, dopo tutte le scoppole prese, urbi et orbi, in politica estera, ci vorrebbe una dentiera per risolvere il problema. Dunque, molare gonfio e trigemino in fiamme (metaforicamente, è chiaro), prima delle vacanze di Natale Mr. President si è parato davanti alle telecamere per una conferenza stampa che ha lasciato i “casabiancologi” decisamente perplessi. Si è trattato di un intervento “unusual”, quasi forzato, un lungo monologo sulle scelte fatte in Medio Oriente nel 2011-2012, specie se viste alla luce di come la trottola gira in questo momento. Sussulto di coscienza? Rimorsi postprandiali notturni da tacitare? O “excusatio non petita”? Sì, perché la difesa che Obama ha fatto della foreign policy americana, ai più è apparsa poco convinta (e convincente), infarcita a pioggia di “se” e di “ma” (pesantissimi, come i capperi nei peperoni ripieni), e, tutto sommato, blandamente sconclusionata. Per usare un caritatevole eufemismo. Il Presidente ha messo le mani avanti, cercando di spiegare il senso delle sue scelte (catastrofiche) davanti alle “Primavere arabe”, provando a parare i commenti che ormai definiscono quel capitolo un evento caotico e molto oscuro della diplomazia Usa. Il problema è che quanto detto da Obama ha sollevato un vespaio di polemiche, mille interrogativi e numerose prese di posizione (dietro le quinte) da parte di un intero establishment che non la pensa come Mr. President. Gli israeliani che hanno (a proposito di “ortodonzia diplomatica”) il dente avvelenato con la Casa Bianca, e che, soprattutto, conoscono meglio di altri gli inghippi e gli zibaldoni strategici all’origine di molte scelte, hanno subito smentito il Presidente Usa, che cercava di negare qualsiasi intervento americano. Al contrario, da Gerusalemme sostengono che i brachettoni a stelle e strisce l’hanno fatta fuori dal vasino, hanno messo il naso in “affairs” di cui non capivano il resto di niente e hanno lasciato tracce grandi come quelle di un T-Rex, di cui sono pieni gli archivi dei servizi di intelligence di mezzo mondo. A un certo punto è sembrato quasi che, provocatoriamente, sfidando Obama, gli israeliani dicessero: “Abbiamo le prove dei vostri giochetti, vuoi che le facciamo vedere?” Meglio di no, Mr. President, altrimenti c’è il rischio che il suo pensierino natalizio diventi il messaggio di carnevale. Dunque, Obama, cercando di passare il cerino nelle mani di qualcun altro, ha negato che gli americani abbiano promosso e sostenuto le rivolte, specialmente in Egitto, Libia, Tunisia e Siria, come invece appare chiaramente “in a number of intelligence files”, sibilano malignamente gli israeliani che, quando possono, cercano di dare un’ulteriore pedata alla politica mediorientale di Obama, già scalcinata di suo. L’analisi è impietosa. Gli Stati Uniti cercavano di sostituire (con la scusa della “esportazione della democrazia”) regimi ex amici e in bassa fortuna, con governi islamici “moderati”, per pararsi il colpo da un possibile “scontro tra civiltà”. Più facile a dirsi che a farsi, perché chi nasce tondo non può morire quadrato e alcuni islamisti, ciclicamente, sentono il “richiamo della foresta”, cioè la necessità di confrontarsi (fino allo scontro) con una civiltà che non è la loro, come quella occidentale. Punto. Il resto sono tutte scuse. Per fregargli uranio, petrolio, fosfati e materie prime assortite, o per continuare a comandare in casa degli altri come sono stati abituati a fare francesi, inglesi e, buoni ultimi, gli americani. Risultato: in Libia è successo un macello, in Egitto si è rischiata la guerra civile con un colpo di Stato e in Siria è veramente cascato l’asino, con un conflitto che ha causato finora oltre 300 mila morti (ma c’è chi parla di mezzo milione). Insomma, qualcuno ha sbagliato i conti e ora cerca di truccare gli scontrini, almeno secondo gli israeliani, che fanno l’esempio del fedele amico (degli americani) Hosni Mubarak, gettato a mare con tutte le scarpe, dalla sera alla mattina, dai Servizi di Washington, che si erano “lavorati” il capo dell’Intelligence egiziana, il generale Omar Mahmoud Suleiman. Ma Obama, facendo l’ecumenico pacifista “democratico” davanti alle telecamere e il cinico politicante, senza troppi scrupoli, nello Studio Ovale, non aveva fatto i conti con una realtà solare: anche il Paese più squinternato ha uno straccio di servizio segreto, che magari funziona. E siccome l’Arabia Saudita non è né squinternata né derelitta, ma è un grande Stato, il re Abdullah venne subito a sapere della porcata di Obama e gli levò il saluto. Per due anni. Fino a una dichiarazione fatta in pompa magna e sotto i riflettori, il 19 agosto del 2013, nella quale il re trattò gli americani (e Obama) come degli incapaci, accusandoli testualmente di “ignoranza” e di “interferenze” e sostenendo che in Egitto “avevano giocato col fuoco e si erano bruciati”. Parole durissime, che portarono l’Arabia quasi a rompere l’alleanza con Washington e ad avvicinarsi, di gran corsa, a russi e cinesi. Poi, la morte del re (di vecchiaia, per carità) ha rimesso parzialmente le cose a posto, anche se i rapporti con gli Stati Uniti restano freddini. Certo, fa un po’ pensare che a togliere la sedia da sotto le terga al presidente americano siano oggi, in particolare, gli specialisti israeliani, i quali gli scaraventano sulle spalle un’altra mezza tonnellata di critiche per la politica seguita in Libia. Tripoli rappresenta l’acme delle maccheronate commesse da Capitan Fracassa Sarkozy con l’assistenza controvoglia di Barack Obama e quella più entusiastica di Hillary Clinton. Ecco, forse le elezioni alla Casa Bianca del prossimo anno rappresentano la chiave per capire la logica dell’uscita, intempestiva, di Obama. La Clinton, le cui idee al Dipartimento di Stato facevano apparire persino Obama un brillante stratega, sarà la “front runner” democratica? E in questo caso, come si comporterà la grande fetta ebraica dell’elettorato? Se Hillary arriverà allo Studio Ovale, come cambierà la politica americana in Medio Oriente? Comunque sia, resta il fatto che la politica estera, assieme alla crisi economica e ai grandi temi della finanza pubblica, sarà il vero campo di battaglia sul quale si affronteranno i candidati alle Primarie e, successivamente, i due “front runner”, quello democratico e quello repubblicano. Il premier Netanyahu e molti suoi compatrioti israeliani, non c’è dubbio, si sentirebbero molto più confortati se a vincere fossero i repubblicani. Obama non ama la Clinton, ma è un democratico, e cerca di fare, almeno all’apparenza, gli interessi del suo partito. Anche se, decidendo di parlare di Medio Oriente, non ci fanno una gran figura né i democratici e manco lui.

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