Domenica 22 Dicembre 2024

Addio, maestro.
Il cinema piange Scola

Addio, maestro. Il cinema piange Scola

Se si facesse un referendum popolare per il film più perfetto del cinema italiano, forse vincerebbe lui con “Una giornata particolare” del 1977. Ettore Scola, il cui cuore si è fermato «per stanchezza», circondato da una famiglia stretta a riccio per difenderne l’intimità, custodi la moglie Gigliola e le figlie Paola e Silvia, è stato un campione assoluto del miglior cinema italiano del secondo 900, un maestro che detestava i titoli altisonanti, che amava l’autoironia, ma che mai ha rinunciato ad essere in prima fila nelle grandi battaglie civili ed artistiche del Paese.

Animatore della politica cinematografica degli autori con l’Anac, ministro-ombra del Pci con delega alla cultura nel 1989, presidente del Bifest di Bari dal 2011, alle celebrazioni per i suoi 80 anni confessava: «Per il momento non ho tanta voglia di lavorare, anche perché diventa perfino difficile trovare il tempo: sanno che sei libero e ti cercano tutti, per le richieste più strane. Ogni paesino ha un cinema che rischia la chiusura, un festivalino che cerca di crescere, un circolo culturale. E io tutto sommato mi commuovo a sentire tanta passione, mi sembra tempo ben speso quello a fianco di giovani che credono ancora in valori e idee. Ma detesto le celebrazioni e l’enfasi, non è ancora tempo di mummificarmi». E icona immobile non sarà nemmeno adesso, perché l’eco dei suoi film più belli tornerà presto grazie al film documento ancora inedito “Ridendo e scherzando” che gli hanno regalato le figlie, riprendendo quel testimone della memoria per la quale era tornato alla regia nel 2013 con il toccante “Che strano chiamarsi Federico”, quasi un album di famiglia strettamente intrecciato al ricordo di Fellini.

Nato a Trevico, in Irpinia, nel 1931, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove frequenta il Liceo classico Albertelli. Studente di legge, disegnatore e battutista sul “Marc’Aurelio” di Ruggero Maccari e poi autore alla radio per le gag di “Mario Pio” cucite su misura per Alberto Sordi, Scola cresce nel cinema italiano come un “ragazzo di bottega”. I suoi maestri sono Ruggero Maccari, Mario Mattoli, Steno, Antonio Pietrangeli ma anche Totò e Sordi. Eppure è a Vittorio De Sica che poi dedicherà il suo capolavoro “C’eravamo tanto amati” del ’74 ed è al neorealismo che guarderà con “Una giornata particolare” del 1977, scritto con Maccari da un’idea di Maurizio Costanzo, forse il punto più alto della sua collaborazione con l’amico Marcello Mastroianni che avrebbe diretto in ben nove film.

Gli anni 70 coincidono con la massima creatività dell’autore che però firma le sue prime sceneggiature già nei primi anni 50, conoscendo successi, da “Un americano a Roma” ad “Accadde al commissariato”, da “Il conte Max” a “Il mattatore” o “La marcia su Roma” che preannuncia il suo esordio dietro la macchina da presa: è il 1964, il film è “Se permettete parliamo di donne”. Un buon successo, una sicurezza del mestiere gli consentiranno di ripetersi (“La congiuntura” e “L’arcidiavolo”), ma è nel ‘68 che, grazie alla garanzia di Sordi, firma il suo primo successo popolare con “Riusciranno i nostri eroi”.

I vizi degli italiani sono in mostra, l’approccio è diverso da quello dei Monicelli e Risi, una vena di malinconia e di solidarietà per i suoi “mostri”. Dopo “Io la conoscevo bene” nel 1965, dal ‘69 (“Il commissario Pepe” con Ugo Tognazzi è omaggio indiretto a Pietro Germi) Scola diventa un autore a tutto tondo.

Da regista ha sempre guardato con disincanto alla sua carriera, eppure film come “La più bella serata della mia vita” da Durrenmatt, “I nuovi mostri”, “La terrazza”, “La famiglia” scandiscono altrettanti capitoli del miglior cinema nostrano in una fase storica (l’ultimo terzo del ‘900) che acuiva il declino italiano. «Non mi pare che le cose siano migliorate – commentava di recente – , anzi. Ma mi fa piacere che titoli come La terrazza o La famiglia si vedano ancora, fotografano momenti di svolta importante nella nostra vita, specie il secondo che abbraccia idealmente 80 anni di storia italiana».

Ma era affezionato anche al corto contro il razzismo “1947- 1997” o al corale “Gente di Roma”, che racchiudeva la sua memoria di romano d’adozione.

Di Scola va ricordata anche l’anima di più ampio respiro europeo, che passa per titoli come “Il mondo nuovo” (1982), “Ballando ballando” (1983), “Il viaggio di Capitan Fracassa” (1990).

Che la politica sia stata sempre la sua passione è facile ricordarlo scorrendo la lista dei documentari che ha firmato: da “Viaggio nel Fiat Nam” fino a “Un altro mondo è possibile” e “Lettere dalla Palestina” (opere collettive dei cineasti italiani del 2002), passando per il toccante “L’addio a Enrico Berlinguer” del 1984.

Scola non si è mai nascosto dietro scelte di comodo, ma non ha mai sbandierato le sue passioni con un gusto della battuta sdrammatizzante che lo accompagnava in ogni apparizione pubblica. «Bisogna saper ridere di sé per ironizzare sul mondo - diceva -. Peccato che ogni anno che passa sia sempre più difficile». Era un uomo forte e robusto, il volto da antico romano incorniciato da una barba severa che negli ultimi anni si era imbiancata come la capigliatura leonina. Parlava piano con un eloquio punteggiato di battute sottili che non risparmiavano niente e nessuno, ma sempre accompagnate a una natura gentile che restituiva umanità e calore.

Ha vinto a Cannes, a Venezia, per quattro volte è stato nominato all’Oscar e sulla bacheca di casa figurano 8 David di Donatello, compreso quello alla carriera ricevuto nel 2011. Ha tenuto a battesimo imprese culturali come il Festival di Annecy e quello di Bari, la Casa del Cinema (fondata dall’amico Felice Laudadio), la Festa di Roma (di cui ha presieduto la prima giuria, nel 2006). Ha vissuto tra i libri, le passioni, il disegno, la musica, senza sentirsi quel grande intellettuale europeo che era diventato.

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