Un bel patto fiduciario ha contrassegnato il Festival di Sanremo che si è appena concluso. Da una parte, c’è stata un’ampia apertura di credito da parte dei telespettatori. Non tutti gli italiani, naturalmente: perché, pur in presenza di eventi “imperdibili”, c’è chi continua a vivere senza tv. Ma si suol dire che in certi casi “il Paese si ferma”: negli Usa per il Superbowl e qui per Sanremo. A ciascuno il suo. Viva l’eccezione culturale. E di fronte all’entità di certi numeri, più che alla sociologia si dovrebbe ricorrere, in senso proprio, all’antropologia culturale.
Dall’altra parte, c’è stata “mamma Rai” a ricambiare con quanto di meglio ritiene di offrire: un cerimoniere, Carlo Conti (confermato per il 2017), impeccabile nel condurre la narrazione assieme a compagni affabili come le figure più amene e meno travagliate tra quelle analizzate da Propp nel suo schema.
Tuttavia Sanremo è anche (soprattutto) competizione. E qui la dimensione fiabesca è stata lievemente più contrastata. Ma sono solo canzonette.
Più interessante è invece valutare due “miti” sanremesi. Il primo: non ci sono più le belle canzoni di una volta. Osservazione “nostalgica”: la migliore musica leggera nazionale a volte si è incontrata col Festival. Molte altre no. Inoltre i giovani d’oggi esprimono la propria creatività con il rap e ormai il mercato discografico si è liquefatto.
Il secondo “mito”: ogni edizione di Sanremo è lo “specchio” momentaneo del Paese. Se fosse vero, dal 66° Festival si potrebbero avere indicazioni sull’Italia del 2016. Sappiamo che hanno vinto gli “Stadio”, gruppo in attività da 40 anni e con un leader, Gaetano Curreri, nato nel 1952. La loro canzone “Un giorno mi dirai” si basa sulle accorate parole di un padre alla figlia, e ha messo d’accordo sia il televoto sia le giurie di esperti. Ora gli “Stadio” dai capelli imbiancati rinunciano a rappresentare l’Italia all'Eurofestival, spianando la strada alla seconda classificata, Francesca Michielin, nata nel 1995. L’immagine che vien fuori non appare “sociopolitica”, bensì demografica: l’Italia è, sempre più, un Paese per vecchi. Ma per fortuna sa affidarsi ai giovani. Veramente giovani.
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