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Eco “il veggente” tra passato e futuro

Eco “il veggente” tra passato e futuro

Tutto è legato, connesso: puoi pensare il mondo come un unico ininterrotto vortice che al contempo disperde e raduna, e contiene. La storia e le storie d’ogni tempo, insieme: è il sogno dell’Enciclopedia, di Eraclide Pontico, di Marco Terenzio Varrone, Diderot, Voltaire. Il sogno di chi vive la vita davvero come universo, e tutto vorrebbe stringerlo in una mano.

Il libro totale, se esistesse, esprimerebbe la circolarità del tempo e quindi di ogni spazio: il miraggio caro a Mallarmé e inseguito per l’intera esistenza, l’incubo felice di Borges, campione di deserti e labirinti, che sono altrettante astrazioni di universi (im)possibili.

Umberto Eco, appunto pensatore circolare, è stato enciclopedia, predestinato custode di reperti – preziosi – di Storia e d’arte, capace però di piegare ogni sapere all’incalzare del futuro. Decrittatore quindi di significati e simboli, semiologo illuminato come in Francia l’altro genio dei segni, però più etereo: Roland Barthes. Straordinari veggenti, entrambi: proiettati e già dentro il tempo che verrà.

Il carisma di Eco è quello che viene dall’intelligenza e dall’ironia; il momento creativo è quasi una necessaria postilla, una protesi: viene dopo, come imposto – ogni volta – da un’ineludibile contingenza.

Con “Opera aperta” Eco asserisce che ogni atto artistico dovrà rimanere permeabile a ogni intorno: non soffrire ma anzi accogliere le interferenze, le distorsioni che saranno prodotte da interpretazioni diverse. Da un erudito medievalista arriva un’indicazione chiara nel viaggio verso la modernità. E questo stesso spirito rende possibili testi fondamentali come “Apocalittici e integrati”, “La struttura assente”, il “Trattato di semiotica generale”, “Lector in fabula”. La modernità è liberarsi d’ogni imbalsamato preconcetto, aprirsi al brusio costante – ricco e contraddittorio – che viene ancora dal mondo passato e già da quello futuro: soltanto con questa “metodologia” si può riguadagnare spazio nelle lande aride del già detto. “Opera aperta” costituirà il “manifesto” del famoso rivoluzionario “Gruppo 63”.

In questo senso “Il nome della rosa” è un romanzo pianificato “a tavolino”: un mix perfetto nato dalla conoscenza d’un mezzo espressivo (Io so cos’è che vi aspettate di là del fiume, e grazie ai giusti ingredienti quello avrete). Tutti i romanzi di Eco, più o meno riusciti, sono orologi che non scandiscono il tempo ma provano al contrario a spiazzarlo, a spingerlo in territori non suoi. La scrittura, sempre, conta meno del meccanismo. L’approccio, come pure nelle sue celebri “Bustine di Minerva”, è da “scienziato”. Della politica, pure. Come Eco ha dimostrato soprattutto in alcuni frangenti difficili della Seconda Repubblica.

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