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Gerusalemme Est
“capitale” araba

Gerusalemme Est “capitale” araba

La lingua batte dove il dente duole. E siccome, in politica estera, Obama, viste le carie accumulate, avrebbe bisogno di una dentiera, allora non c’è alcuna sorpresa nello scoprire che si sta preparando al trapasso (politico, per carità) di gennaio 2017, quando dovrà lasciare la casa Bianca al nuovo presidente. La “piramide” virtuale del novello faraone a stelle e strisce, il monumento eterno dove non saranno depositate le sue spoglie, ma solo i suoi pensieri (e, quel che più conta, le sue azioni) è rappresentato dai libri e dalle analisi che i politologi scriveranno sul suo “ottennato”. Come lo giudicheranno? Beh, c’è poco da scialare. Mano a mano che si avvicinano le scadenze, aumentano anche i muggiti e i grugniti di tutta la compagnia di processione che ha seguito il Presidente. Un arlecchinesco caravanserraglio, che ha, di volta in volta, sfruttato l’onda lunga dei suoi successi ed è invece scappato a gambe levate davanti alle sue maccheronate.

Obama è stato un buon Presidente. All’estero, però, ha molto risentito di quella che uno dei suoi maestri, Robert Putnam, chiama «la sindrome della mediazione a tutti i costi». Grande virtù, ma che rischia di diventare un boomerang quando, comandando la nazione più potente del mondo, devi comunque prendere una decisione, facendo una sintesi tra i tuoi “advisors”. E qui casca l’asino. Anzi, vola, vista la favola di una politica estera americana “vincente”, a cui credono in molti. Non è così. E per molti motivi. Il “decision making process”, e cioè la difficile e complicata elaborazione della rotta che il transatlantico Usa deve tenere, non è affatto frutto delle meningi del Presidente. O, meglio, lui dà l’ultimo colpo di timone, ma chi gli traccia la direzione sono consiglieri, analisti, “ghost-thinker”, parenti, amici e vicini di casa.

Tutto vero. I destini del mondo, spesso in bilico, a volte sono stati decisi da chi proprio non te l’aspetti. Come nel caso di Bob Kennedy, il vero “cervello pensante” durante la Presidenza del fratello John, molto più famoso, ma anche un po’ meno dotato di lungimiranza. Durante la crisi di Cuba fu Bob a mettersi contro tutto l’establishment militare di Washington, Cia compresa, riuscendo a farci scansare la Terza guerra mondiale. E pagando poi le pere, con gli interessi, dopo che era stato già “sistemato” il fratello John, a Dallas.

Ma torniamo a Obama-Tutankhamon. Non sarà onusto di gloria e di allori come lo splendido re dell’Alto e del Basso Egitto. Ma ha pur sempre ricevuto un Premio Nobel (per la Pace, ma non ditelo a nessuno…). Bene, abbiamo scritto tutto questo zibaldone per spiegarvi le origini dell’ennesimo colpo di teatro di SuperBarack: siccome il piatto piangeva, lacrime amare (quello della pace), ha rilanciato. In piena guerra di Siria, il nostro cavaliere senza macchia e senza paura, si è inventato un nuovo piano per il Medio Oriente, “segretissimo”… Tanto è vero che lo sappiamo pure noi e che qualcosa hanno già cominciato a pubblicare i media americani. Il coniglio dal cilindro dovrebbe uscire alla fine del mandato, anche se il primo a saltare sulla sedia per la meravigliosa pensata è stato proprio il ruvido premier israeliano, Benjamin Netanyahu. Qualcuno pare che stia giocando a sparigliare e cerchi di affossare il piano prima ancora che decolli. Ne era a conoscenza solo una ristrettissima cerchia di Vip alla Casa Bianca: il vicepresidente Joe Biden, la National Security Adviser Susan Rice, l’ambasciatore Usa all’Onu Samantha Powers e Rob Malley (direttore del Middle East and Africa desk al National Security Council). Al Pentagono e al Dipartimento di Stato, dicono ambienti governativi israeliani, imbufaliti quanto una mandria di bufali cafri, non ne sapevano niente.

L’idea partita dalla Rice e subito sposata dalla Powers sarebbe stata abbozzata, “per punire Netanyahu”. Un uccellino, però, lo ha avvisato e, per far capire al Presidente degli Stati Uniti che aria tirava, il premier israeliano ha annullato l’incontro in programma senza dirgli niente, ma comunicando il giro di valzer alla stampa. Secondo i bene informati, il nuovo Piano Obama riguarderebbe cinque punti.

1) Gli Stati Uniti proporrebbero al Consiglio di Sicurezza dell’Onu una Risoluzione-cornice per inquadrare un accordo israelo-palestinese;

2) Contemporaneamente a Washington si abbozzerebbe una “road-map” con reciproche concessioni;

3) Obama eserciterebbe “fortissime pressioni” su Israele per bloccare nuovi insediamenti di coloni nei Territori occupati e, tenetevi forte, perché, alla fine, Gerusalemme Est divenga la capitale della Palestina;

4) Uguali pressioni sarebbero esercitate su Abu Mazen affinché ci sia un riconoscimento formale di Israele come Stato ebraico e perché venga bloccato il “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi in altri Paesi;

5) Obama dovrebbe rendere pubblici, in un prossimo discorso, gli altri punti del “piano”, coinvolgendo i componenti del Middle East Quartet (Russia, Nazioni Unite ed Unione Europea). Fatti i conti e tirate le somme, Netanyahu non ha voluto saperne (almeno per ora) di imbarcarsi in un viaggio senza che siano in vista punti d’approdo sicuri. Anche perché il piano di Tutankhamon-Obama rischia di mettere in crisi, alla luce del sole, le ambizioni di Nefertari-Hillary Clinton, che, favoritissima (per ora) vorrebbe poter diventare ufficialmente e una volta per tutte “faraona” (non c’è alcun sottinteso riferimento allo starnazzante pennuto, credeteci). Trattasi di questo. Agitare Gerusalemme Est come capitale di un futuro Stato palestinese è come, giusto o sbagliato che sia, far vedere un drappo rosso a qualsiasi israeliano. Specie a quella prosperosa (e numerosa) comunità che vive in America. E che là vota. In maggioranza per i democratici. Proprio l’idea di cedere una parte di Gerusalemme agli arabi, per farne la loro capitale, rischia di bruciare penne, piume e “pellizzone” della candidata faraona. Sai che pena per Barack Obama. Il quale, com’è noto a molti, la vedrebbe benissimo, con una pietra al collo, in fondo al Potomac.

Storie vecchie, odi mai sedimentati, antipatie a pelo e guardate di sguincio. Mettetela come volete, ma si tratta di macerie mai rimosse della campagna per le primarie di otto anni fa. Quando Hillary si sentiva già “Presidente”, anzi, “faraona”, e l’oscuro ex senatore dell’Illinois, in un paio di mesi, le fece perdere biga, cavallo e piramide. In quei momenti, con la vittoria quasi in tasca, Bill Clinton girava come una pallina da flipper, di città in città, per perorare la causa della moglie. Quando andò dal povero Ted Kennedy a raccomandare la “faraona”, si fece scappare una considerazione che fece il giro del mondo: «Non penserai mica di sostenere uno di quelli (Obama n.d.r.) che fino al secolo scorso ci portavano il caffè a letto?». L’ultimo dei grandi Kennedy, urtato, mise “Cicciobello” alla porta e la “faraona” perse rovinosamente le primarie.

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