E’ come quei giocatori di poker o di “black jack” che si davano da fare sul Mississippi, in uno dei mitici battelli a ruota immortalati da decine di film western. “Si davano da fare” nel senso che spennavano chi gli capitava a tiro e lo rimandavano a casa senza pantaloni. Vladimir Vladimirovic Putin fa parte di questa categoria di biscazzieri, ma fino a un certo punto. Non è un “gambler” di quelli che giocano d’azzardo a ogni mano. Anzi, le sue mosse non sono “al buio”, ma illuminate da un servizio di intelligence (FSB, erede del più famoso KGB) che è probabilmente secondo solo al Mossad israeliano. E se rilancia, significa che in mano non ha scartine. Premessa indispensabile per capire il clima in cui è maturata la decisione di qualche giorno fa, annunciata urbi et orbi: ritirarsi dalla Siria. E che a molti (ma non a tutti) è sembrato un fulmine a ciel sereno. Bene, chiariamoci le idee, anche perché un nuovo attentato (questa volta di marca Isis) ha insanguinato il centro di Istanbul, aggravando la situazione di instabilità della Turchia e provocando quattro morti e 36 feriti.
Sul ritiro russo, i report dicono che il Ministro della Difesa Usa, Ashton Carter, sarebbe stato raggiunto dalla notizia, una vera bagnarolata di acqua gelida, nel mezzo dell’incontro col suo omologo israeliano, Moshe Ya’alon. Abbiamo appena finito di dire che il Mossad la vince per tre punti a tutti. Ergo: gli israeliani sapevano già tutto e hanno “avvisato” gli… odiati alleati americani. I quali hanno messo il giro di valzer di Putin al centro dei colloqui tenutisi al Pentagono. I Servizi occidentali, dunque erano stati allertati. E lo stupore manifestato da alcuni diplomatici “supervip”, come il Segretario di Stato Usa, John Kerry, viene definito in Israele una “masquerade”. C’è addirittura chi arriva a vedere nell’annunciato ritiro di Mosca una mossa concordata con gli americani, per tenere a cuccia i sempre più incontrollabili ayatollah. I quali stanno rafforzando, proprio in questi giorni, la pretesa di salvaguardare le terga del presidente siriano Bashar al-Assad, inchiodandolo col mastice alla poltrona che occupa. Sappiamo, però, che gli accordi tra Casa Bianca e Cremlino prevedono ben altro. E cioè che Assad, salvata la pellaccia, smammi e consenta l’avvio del processo di transizione che dovrebbe garantire un ritorno alla stabilità amministrativa in Siria. Ci risulta, a conforto della tesi sulla “finta sorpresa”, che i satelliti americani avevano già fatto il loro lavoro, segnalando che parte degli aerei Sukhoi (Su-24, Su-25 e Su-34) stava già smobilitando dalla base di Hmeineem e come stavano facendo i Tupolev Tu-214R da ricognizione. Stessa solfa per il porto militare di Tartous, da dove sono sparite le navi da guerra russe. E comunque, notizia che taglia la testa al toro, pare che il 10 marzo il Segretario del Security Council russo, Nicolaj Patrushev, abbia ricevuto l’incarico di comunicare ufficiosamente al National Security Adviser Usa, Susan Rice, al presidente siriano Assad e al Consigliere per la Sicurezza Nazionale israeliana, Avriel Bar-Yosef, la decisione riguardante il ritiro, per ora solo parziale. Nessuna sorpresa anche da parte iraniana. Gli altarini erano già stati scoperchiati in precedenza dallo stesso Assad, con lunghe telefonate dirette al leader supremo Alì Khamenei e al generale Qassem Soleimani. Ora però, squagliatasi la neve, vengono fuori i fossi. Putin punta al controllo di tutta la fascia di frontiera siro-turca e per questo ha segretamente organizzato e sostenuto il meeting del Partito Democratico dell’Unione Curda, tenutosi a Rmeilan. In pratica i russi sarebbero diventati i “patrons” (e protettori) dei curdi nell’area che abbraccia Jazira, Hassakeh e Qamishli, nonchè le città di Kobani e Afrin, recentemente sottratte al controllo dello Stato Islamico. Si tratta di “enclavi” che dovrebbero essere collegate andando alla conquista dei “corridoi” ancora in mano al “Califfato”. I curdi, con l’aiuto russo, riuscirebbero così a “sigillare” 500 chilometri di frontiera con la Turchia, che in questa fase è il nemico pubblico numero uno per Putin. Erdogan, da Ankara, capita l’antifona, ha risposto con parole di fuoco, dicendo che non accetterà mai la costituzione di una regione autonoma curda ai confini col suo Paese. E che invaderà la Siria da nord. È quello che aspettano i russi, per togliersi sassolini, spuntoni e chiodi a tre punte dalle scarpe. Se i turchi attaccheranno, allora i russi li copriranno di bombe e, pare di capire, che Putin sembri quasi dire “si vedrà chi avrà più corda per legare l’asino al palo”.
Per ora il capo del Cremlino è soddisfatto dai risultati raggiunti col suo Patto sull’Eufrate con Obama. Nell’ordine: 1) Ha stabilizzato Assad; 2) Ha schiacciato l’Isis e indebolito i ribelli “moderati”; 3) I suoi aerei hanno fatto 9 mila sortite e anche se il 70% sarà ritirato, il resto del lavoro lo farà la portaerei Admiral Kuznetsov, attraccata a Tartous; 4) Non ha impiegato in combattimento truppe di terra e ciò a dimostrazione che i suoi aerei sono stati molto ma molto più efficienti di quelli americani; 5) Tornerà a Ginevra da trionfatore e assieme a Obama costringerà tutti gli altri a firmare la pace; 6) Non si è manco troppo dannato a combattere contro l’isis e al-Nusra (i qaidisti), perché nella sua area di competenza (ovest della Siria) i ribelli fondamentalisti erano meno concentrati che a Est (sotto “giurisdizione” Usa). Insomma, ci sarebbe quasi da essere ottimisti, se non fosse per il turcomanno. Erdogan. Ricordiamo agli innumerevoli sprovveduti che pensavano di “esportare la democrazia” (tanto al chilo) che la Turchia fa parte della Nato, alleanza di mutuo soccorso di cui, vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro, fa parte anche l’Italia. E siccome il turcomanno gioca con tre mazzi di carte dall’inizio della guerra siriana, non è improbabile prevedere un catafascio di disgrazie. Sempre esorcizzando la catastrofe estrema, perché, se qualcuno ha tutta sta voglia di morire per Danzica, come si diceva tre quarti di secolo or sono, faccia pure. Ma l’Italia ne resti fuori. Per ora i segnali sono confortanti, perché Erdogan si è rivolto a Obama cercando ventura e il presidente Usa gli ha fatto rispondere, dal Dipartimento di Stato, picche. Sì, gli americani non amerebbero vedere un Kurdistan siriano autonomo… ma, ma che ci volete fare. Chi vivrà vedrà. Per ora Washington sostiene “una Siria unita”. Che non esiste, aggiungiamo noi, manco nel sacco di Babbo Natale, dato che prima era divisa e ora, dopo la “Guerra umanitaria” è praticamente polverizzata. Così, con un epilogo alla Hitchcock, i turchi, che chiedevano una “no-fly zone” al loro confine sud, alla fine l’hanno avuta. Ma controllata, paradossalmente, dagli aerei russi. E così si è creata un’area esplosiva quanto una polveriera. Chi getterà il primo cerino?
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