Leviamoci subito il pensiero e cominciamo dalla fine. I prossimi attentati dell’Isis potrebbero scatenarsi in Russia. Mosca o San Pietroburgo. Un sempre più terreo Putin (gli altri sbracano, lui si acciglia) lo sa. Lo sapeva anche prima di intervenire in Siria, ma ora i suoi Servizi gli hanno fatto un quadretto di quelli che ti fanno passare la poetica “Mezzanotte a Mosca” all’impiedi, girando nervosamente per i corridoi del Cremlino e rimuginando rappresaglie. All’FSB, gli eredi del KGB, sanno che, quelle verificatesi in Medio Oriente e soprattutto la mattanza di Bruxelles, sono solo delle anticipazioni rispetto a ciò che lo Stato islamico e i ceceni hanno in mente per la Santa Russia. Durante un briefing con i capi dell’FSB, alla fine di febbraio, Putin ha chiesto di passare al setaccio tutti i possibili “rifugiati” o gli stranieri in arrivo dall’Europa. Rispondendo così alle feroci accuse della Nato, emerse nei giorni scorsi, su un piano “segreto” del Cremlino per facilitare il rientro dei “foreign fighters” (ritenuti potenziali terroristi) nel Vecchio Continente. I controlli, ha detto il Presidente russo, devono essere asfissianti. Il Direttore dei Servizi, Alexander Bortnikov, ha aggiunto (dopo Bruxelles) che le autorità russe sanno di essere bersaglio privilegiato dai terroristi ma che finora i possibili attacchi “sono stati scoperti in tempo”. Il che non significa che lo saranno sempre. Comunque, a Mosca sanno dove cercare. Qualche settimana fa un’azione preventiva è stata condotta nel Caucaso dall’antiterrorismo russo. Strette in una morsa Dagestan (il distretto di Derbentsky), Inguscezia, Ossezia, Karachay-Cherkes, Kabardino-Balkaria e la regione di Stavropol. I russi cercavano tre gruppi di terroristi che avrebbero ricevuto da Raqqa (Siria), la capitale del “Califfato”, l’ordine di colpire. Putin non a caso, in questi ultimi giorni, ha molto frenato con i bombardamenti. Non vuole offrire ulteriori pretesti. Ma la psicosi non è solo russa. Improvvisamente, tutti gli europei si scoprono deboli e con le terga pericolosamente esposte, non tanto allo scirocco, quanto alle “raffiche” di un vento micidiale, chiamato “Kalashnikov”. Vere e proprie folate di morte, accompagnate da esplosioni sorde e cupe, che ti riempiono il petto e che ricordano i tuoni, ma sono “tnt”: tritolo. Sembra lo scenario di un romanzo da brivido, stile “Il castello di Otranto”, o la trama di un racconto raggelante di Edgar Allan Poe. Ma ogni cosa è, invece, terribilmente reale. È quanto stiamo vivendo tutti, senza distinzione di nazionalità e di latitudine, per colpa del terrorismo jihadista. All’improvviso, abbiamo capito che, anche a casa nostra, non siamo al sicuro Sangue chiama sangue. Viaggiare può essere un rischio, andare a fare shopping nel cuore di una grande città europea può rivelarsi un azzardo. Insomma: le disgrazie non capitano sempre e solo agli altri e le crisi internazionali non riguardano solo Paesi lontani, “che se la sono cercata”, ma toccano anche l’aeroporto, la stazione ferroviaria e il supermarket all’angolo. E così si cade progressivamente preda di una sensazione d’impotenza, di un panico controllato a stento, della voglia di ripiegarsi in se stessi, di rifugiarsi nel “particulare”. Niente di più sbagliato. Chi reagisce così fa solo ed esclusivamente il gioco dei terroristi e finisce per dare ragione alla loro tattica, dissacratoria di ogni briciolo di umanità. “Terrorismo” significa proprio questo: seminare la paura a piene mani, a pioggia, in modo irragionevole, per distruggere tutti gli snodi, le “interconnessioni”, della società civile. Che per noi è quella occidentale, con tutti i suoi limiti, ma anche con tutti i suoi pregi. Una società che fatica a comprendere quello che una volta bin Laden sibilò in faccia a un agghiacciato cronista: “I vostri figli amano la vita, ma i nostri preferiscono la morte”. E quale scuola di diplomazia o “think-tank” di persuasori “buonisti” può cercare di far ragionare gente con una simile mentalità, che per fortuna è minoritaria, molto minoritaria, nell’Islam? Ergo: con l’arcipelago variegato e, per certi versi, incompreso, dei fedeli di Allah, bisogna conviverci, cercando di sfruttare le “maglie” che si aprono nella fortezza della “guerra santa a ogni costo”, per eroderla anche dal di dentro. La medaglia, però, ha due facce.
Non dobbiamo farci impaurire e, dall’altro lato, dobbiamo intensificare i nostri sforzi, per “capire”, “interpretare” e “prevenire” le mosse dei sanguinari soldati del terrorismo. Meno chiacchiere, prediche e cannoni, insomma, e più risorse spese in intelligence, spionaggio e operazioni segrete, che anticipino la strategia del nemico. E poi, in quello che sta accadendo oggi, la religione c’entra fino a un certo punto. Verrebbe voglia di dire che c’entra poco, perché è una coperta corta con la quale si cerca di coprire indegnità, crimini ed egoismi che erano sepolti sotto la polvere della storia. Nella farcia di questa mortifera torta, confezionata dai maneggi di un variopinto caravanserraglio, una vera banda d’incapaci, c’è di tutto, non occorre andare indietro fino alle Crociate o alla conquista dell’America Latina, fatta col concorso di alcuni potenti ordini cattolici. Le formidabili colpe del colonialismo, specie quello anglo-francese, si sommano a un capitalismo d’assalto che sembra uscito dall’etica protestante di Max Weber. La strisciante eugenetica culturale attribuita solo ai nazisti, ma in effetti “patrimonio” deteriore di una certa arroganza occidentale, fa il paio con la pretesa di “esportare”, costi quel che costi e nei tempi stabiliti dall’America, la “democrazia” in Paesi che, per un millennio e mezzo, hanno vissuto regolando la loro vita amministrativa sul Corano. Per cui, oggi sembra fuori luogo venire a fare il predicozzo per “impupare” i veri motivi di un “interventismo umanitario” che sconfina nella rapina. La nostra concezione dello Stato-nazione è distante anni luce dalla struttura sociale o “para-statuale” esistente nel mondo islamico. Una rete di rapporti basati sui legami di sangue (famiglia, clan, tribù, etnia) domina il mondo terribilmente complicato delle relazioni tra il potere, “politico”, militare e religioso, e una società civile polverizzata in mille rivoli. Se non si capisce (e prima bisogna studiarlo) tutto questo, si finisce per commettere una montagna di errori e di orrori. A loro volta figli di una mascalzonata dopo l’altra. Certo, non ci aspettiamo che la politica estera sia gestita dai figliocci di Lévi-Strauss o da una scuola di saccenti antropologi. Ma l’ultima cosa che desideriamo è essere governati (e protetti) da una classe politica occidentale dove tutti parlano, dietro le quinte, una lingua diversa (perché hanno interessi diversi). Si sprecano interpretazioni campate in aria, si azzardano analisi di improbabili Servizi segreti (che arrivano sempre in ritardo), si abbozzano giustificazioni di comodo e alla fine si allargano le braccia e si cade nel piagnisteo. Desolante.
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