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E adesso torna
in ballo il Golan

E adesso torna in ballo il Golan

Ogni tanto l’idea torna a galla e sugli israeliani ha lo stesso effetto che aveva l’enorme squalo del film di Spielberg sugli atterriti nuotatori: chi era sulla spiaggia scappava a razzo, in costume e ciabatte, senza girarsi, prima di essersi barricato in casa. La proposta “shock”, così la definiscono ecumenicamente a Gerusalemme, è quella di restituire il Golan, che gli israeliani si sono pappati durante la Guerra dei Sei Giorni. E che hanno eretto a loro “Limes”, giurando, come i legionari romani, di difenderlo contro le tribù nemiche, Cherusci o Marcomanni che fossero. Certo, in Siria i nemici non hanno proprio fattezze germaniche, ma fanno paura lo stesso e dietro ogni angolo potrebbe appostarsi un novello Arminio, con tanto d’ascia bipenne, ansioso di vendicarsi. Quei furbacchioni di Obama e Putin, ormai lanciatissimi nell’organizzare “forum” di “diplomazia parallela”, hanno dato istruzioni ai loro bracci destri in politica estera, John Kerry e Sergei Lavrov, di inserire la restituzione del Golan alla Siria nel mazzo delle proposte per firmare la pace a Ginevra. Per la verità, “fatti precorrendo e idee”, già il premier israeliano Begin, nel 1981, aveva fatto votare una legge che stabiliva l’assoluta “israelianità” del Golan. Certo, l’area era già strategicamente fondamentale prima e lo è diventata ancor di più dopo lo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011. L’esercito di Israele ha rafforzato le linee di difesa che culminano nel Monte Hermon e considera non già Assad, ma Hezbollah e gli iraniani i veri nemici che potrebbero infiltrarsi in Galilea via Golan. Non solo. Le stesse forze armate di Gerusalemme hanno stabilito un collegamento diretto con le forze del Cremlino nei pressi del Golan per non pestarsi i calli a vicenda. Comunque le prime reazioni, un tantino scomposte, non si sono fatte attendere. Netanyahu ha chiamato Kerry e, dicono le solite fonti “bene informate”, lo ha pestato a sangue. Metaforicamente è chiaro, anche se ha pregato il Segretario di Stato di estendere tutto il suo manesco livore a Barack Obama. Netanyahu ha poi annunciato che chiamerà Putin per usare il “metodo Kerry” (cioè lo coprirà di contumelie), organizzerà un meeting governativo proprio sul Golan, per far capire a tutti chi comanda da quelle parti. E, last but not least, allargherà i cordoni della borsa per migliorare le infrastrutture e l’economia della regione. Questa, però, è solo una parte del discorso. Sappiamo tutti che gli Assad, prima il padre e ora il figlio, da sempre hanno preteso che fosse loro restituito il Golan, occupato dagli israeliani durante il famoso conflitto “dei sei giorni”, che ancora viene studiato, con la bocca aperta, in qualsiasi Scuola di guerra, come “compito in classe” da qualsiasi futuro generale. I siriani hanno sempre alzato la voce.

“Rivogliamo il Golan, fino all’ultimo granello di sabbia e fino all’ultimo goccio d’acqua”. E poi c’è anche l’altro sogno: allungare le mani sul Libano, o almeno su quelle zone che, storia alla mano, farebbero parte della “Grande Siria”. Ora, specie alla luce di ciò che diremo, cedere il Golan, per i governanti israeliani, sarebbe una specie di amputazione senza anestesia. A prima vista le alture che culminano nel massiccio del Monte Hermon sembrano avere una formidabile valenza militare, nella realtà il motivo per cui gli israeliani sono sempre stati eufemisticamente “recalcitranti” a trattare la restituzione di questa porzione di territorio conquistata dai carri armati di Moshe Dayan è un altro: l’acqua. Il Golan è il serbatoio idrico del Medio Oriente e chi lo controlla ha in mano un formidabile potere contrattuale, oltre che un indispensabile fattore di sviluppo per l’economia di tutta l’area. Il modello di agricoltura intensiva adottato dagli israeliani richiede un massiccio rifornimento idrico che non può prescindere dall’acqua che arriva dal Golan e che si immette nel Mare di Galilea. Da qui una serie di massicce condotte si diramano per dissetare gran parte del Paese. Come in un perverso effetto domino, l’esigenza siriana di avere accesso alle sorgenti idriche dell’area è stata acuita dal contenzioso con la Turchia, che negli anni, costruendo diverse dighe, ha regimentato e impoverito la portata dell’Eufrate (da 850 a 500 metri cubi al secondo), l’altra preziosa fonte di approvvigionamento di Damasco. Ecco perché un accordo sul Golan farebbe comodo anche ad Ankara: le consentirebbe di scaricare, e di molto, le tensioni sorte a più riprese con i siriani e di proporsin come il principale fornitore estero di Tel Aviv attraverso, probabilmente, il porto di Ceyhan. Inoltre, va sottolineato come tutta la Turchian stia per diventare un’enorme testa di ponte energetica, un terminal delle pipelines centro-asiatiche capace di by-passare le insidie politiche del convitato di pietra persiano, che la geografia sembra aver messo di proposito tra i piedi degli occidentali per controllare le vitali rotte del petrolio e del gas che partono dal cuore dell’Asia. L’altro grande problema che si ritroverebbe per le mani Nertanyahu, qualora fosse veramente ipnotizzato, chiuso con la testa in un sacco e “convinto” a suon di dollari a sbaraccare dal Golan, sarebbe quello dei coloni ebrei. Basta dare un’occhiata alle mappe per accorgersi di come, da Neve Ativ, nel profondo nord delle alture, fino Mevo Hama, quasi sulle sponde del Mare di Galilea, pullulino kibbutz e insediamenti agricoli collegati da un reticolo di strade che fanno perno su Qazarin, Bnei Yehuda e Hispin. In effetti, il governo di Tel Aviv, che sta in piedi quasi per scommessa grazie a una traballante coalizione, deve rendere conto e ragione delle sue mosse a un arco variegato di gruppi politici e sociali, tra cui, in particolare, i partiti religiosi, che vedono come il fumo agli occhi qualsiasi ipotesi di concessione ai siriani e di ritiro sulla linea del fronte del 4 giugno 1967. Qualunque siano gli sviluppi, i futuri negoziati “definitivi”, quelli che porteranno la vera pace nella regione, non potranno prescindere dalla restituzione del Golan, dal contemporaneo riconoscimento senza condizioni di Israele e da un serio impegno, non solo regionale, di equa disponibilità delle risorse idriche. In quest’ultimo caso, una riesumazione del Piano Johnston del 1955, proposto all’epoca dagli americani e mai sottoscritto, potrebbe essere una buona base di partenza. Certo, si tratta di un vero e proprio percorso di guerra, irto di barriere, filo spinato e campi minati. Ma è anche l’unica strada obbligata, se non si vuole che, pur di vincere qualche partita, si finisca tutti per perdere il torneo e che ad alzare la coppa resti solo il “Califfo”.

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