Napoleone vinceva le battaglie perché era un genio della strategia, ma anche della tattica, che sono due momenti diversi, ma altrettanto fondamentali, di qualsiasi piano (o “algoritmo”, fa più fino) destinato a conseguire il risultato migliore. E questo vale per la storia, la politica, l’economia e, per far capire l’estrema universalità di un modello che, a prima vista, appare semplice ma che invece è complesso, anche per una partita di briscola.
Il confronto tra avversari o tra idee contrapposte, insomma, è governato da certe “leggi” che non sempre, anche se correttamente applicate, conducono all’obiettivo sperato. Cioè la “vittoria”, l’affermazione di un punto di vista sull’altro.
Esistono soloniche disquisizioni sull’argomento, dalla Teoria dei Giochi (che studia e cerca di prevedere i risultati dei comportamenti) a quella delle “Catastrofi” (essenzialmente matematica pura, che parla del collasso dei sistemi), fino alla Teoria delle scelte, che codifica i processi del “decision making” e i loro effetti. Tutto questo passando per la “Teoria del caos” e gli “Effetti farfalla”, nozioni meteorologiche entrate prepotentemente nella nostra quotidianità a significarne la precarietà. O, meglio, l’assoluta imprevedibilità.
Ora, i nostri lettori ci perdoneranno cotanta tiritera, che però giudichiamo assolutamente necessaria, per spiegare che quando nel mazzo entrano i comportamenti umani le analisi diventano meno, molto meno, “deterministiche” del previsto. E i numeri non danno “sicuramente” esiti finali, ma solo degli indirizzi che, tecnicamente si chiamano “correlazioni”.
Tutto questo per dire che, sotto questo cielo, niente è sicuro. E chi dice il contrario bara. Bene, trasferiamo tutto questo zibaldone nel campo della politica americana e, più in particolare, nella corsa alla Casa Bianca, luogo dal quale il prossimo Presidente Usa continuerà a influenzare, minuto dopo minuto, i destini dell’umanità.
Hillary Clinton o Donald Trump? Bella domanda, direbbero tutti. Basta aspettare che si consolidino i sondaggi che, negli Stati Uniti, i politici consultano anche per andare in bagno. Basta così? Per niente, perché la sorpresa, beffandosi dei numeri, è dietro ogni angolo della Pennsylvania Avenue, la strada che porta alla poltrona dello Studio Ovale, cioè al sogno impresso a fuoco nella cocuzza di ogni americano almeno una volta nella vita.
Ancora è presto per tirare la prima linea sotto i numeri disponibili e fare le pre-previsioni. Trump, il front runner repubblicano, a nostro modesto giudizio è un “impresentabile”. No, non perché il messaggio “neocons” sia passato di moda. Anzi. Alcuni suoi aspetti sono attualissimi e diverse disamine, fatte anche da giudici imparziali, dicono che il progetto del Grand Old Party resta attuale, specie a fronte di una crisi che vede gli apparati statali affogare nel sangue dei cittadini, per lo strutturale squilibrio tra spese pubbliche e introiti fiscali.
Insomma, almeno questo in America l’hanno capito tutti, anche i democratici. Lo Stato invade le corsie autostradali opposte dell’economia, quelle private, e provoca stragi che tagliano le gambe al Sistema-Paese. È un problema di numeri, non solo di principi. E negli Stati Uniti l’invadenza del potere politico nelle tasche dei cittadini non è nemmeno lontanamente paragonabile al massacro che avviene in Europa. E in Italia. Eppure, la domanda che si fanno ugualmente gli americani è :«Lo Stato centrale a cosa serve?». E questo a fronte di un’organizzazione amministrativa che è strettamente federale, in cui ogni singolo Stato fa da “cuscinetto” tra i vampiri di Washington e le povere vittime della periferia, dal Mid-West alle assolate pietraie dell’Arizona.
Dicevamo di Trump. No es el hombre màs hermoso del mundo, dicono in tutta la fascia ispanica del Paese. Y ni tampoco es simpático. Insomma, traducendo sommariamente, Trump è una specie di rospo repellente, a sentire la componente etnica più importa degli Stati Uniti. A San Diego, a un suo comizio, è finita a bastonate, cariche della polizia, arresti e spray col peperoncino.
I messicani proprio non lo digeriscono. È spiccio di modi, arrogante, abbastanza “broccolino” nella portanza e mezzo puttaniere, con le tasche piene di dollari sudati fino a un certo punto. Non è certo un uomo di Stato.
Niente a che vedere con l’eleganza di un Obama, con il fascino di “Cicciobello” Clinton, con l’incartapecorito ma onusto di glorie militari John Wayne-McCain o con la prudenza di Pecos Bill-Bush, che applicava la massima trasmessagli dal padre: «Parla poco e se ti fanno domande sorridi e rispondi a monosillabi. Vedrai che ti batteranno le mani».
No, questo assomiglia di più a una via di mezzo tra un buttafuori moldavo (come il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman) e un Presidente a vita kazhako, come Nursultan Nazarbaev, eletto (si fa per dire) millanta volte.
Messa così Lady Clinton dovrebbe vincere a mani basse. E invece i dubbi aumentano. Pure nei sondaggi. L’ex Segretario di Stato ha molti nemici dentro il partito democratico. Il primo di tutti, quello che porta la bandiera, è lo stesso Presidente uscente, Obama. E poi, mano a mano che scorrono le date, i nodi vengono al pettine.
La Clinton non è stata un buon Ministro degli Esteri. Ha fatto passerella quando c’era da fare passerella, ha scaraventato Obama, con tutte le scarpe, nel ginepraio libico e poi è scomparsa dalla circolazione, proprio quando la patata bollente mediorientale ha cominciato a ustionare tutta l’Amministrazione democratica. Ha salvato le terga, insomma, per uscire pura e immacolata da un turbine di fango e presentarsi come una verginella alle elezioni del 2016. Perché deve dimostrare a se stessa e all’America di essere un presidente migliore di quanto sia stato quel “tombeur de femmes” del marito, che l’ha sbertucciata davanti a tutta l’America.
Bene, fatta la diagnosi sul lettino dello psicanalista, passiamo alla prognosi. Non c’è moltissimo da scialare, per ora. Sì, perché (chi di spada ferisce di spada perisce) la Libia è andata di traverso alla Signora. E non solo quella.
Hillary è sotto inchiesta per la storia delle e-mail classificate “top secret” spedite dal suo computer personale, manco fossero gli auguri di Pasqua. Dieci, cento, mille? No, ben trentamila, nelle quali la Signora ha fatto carne di porco di qualsiasi cautela, mettendo a rischio la sicurezza del Paese e violando (l’accusa è precisa e circostanziata) l’Executive Order 13526 del 29 dicembre 2009, firmato dal Presidente degli Stati Uniti.
Comunicazioni che, a detta dell’FBI, dell’Ispettore generale del Dipartimento di Stato (un documento di quasi 80 pagine, perché Kerry ha un diavolo per capello), delle varie Agenzie di Intelligence, dello “State Departmentt’s Bureau of Diplomatic Security” potrebbero aver fatto molti danni, specie se rese obbligatoriamente note sotto il FOIA, il Freedom of Information Act, la legge sulla trasparenza amministrativa.
Quanti danni precisamente? Lo diranno gli elettori a novembre.
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