«Mi sono accorto che l’Occidente conosce le vicende della storia dell’Ucraina soltanto attraverso l’impostazione fornita dai mass media dominanti in maniera spesso superficiale, senza che gli eventi venissero approfonditi. E mi è sembrato giusto che l’informazione fosse completata almeno con un altro punto di vista». Così Oliver Stone ha introdotto il dibattito nella “Tao Class” di ieri al 62esimo Taormina FilmFest, al termine della molto applaudita proiezione del documentario “Ukraine on fire” di Igor Lopatonok (pellicola premiata ieri sera come miglior documentario del FilmFest). Un progetto che il regista newyorkese plurivincitore di Oscar sostiene fortemente, al punto che l’ha prodotto – assieme a Eleonora Granata, pure presente a Taormina – e ha messo a disposizione il rilevante peso della propria immagine.
In “Ukraine on fire” è infatti Oliver Stone in prima persona a intervistare i leader politici più influenti in quel delicatissimo scenario che rende incandescente lo scacchiere mondiale. A partire dal presidente russo Vladimir Putin e dall’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich.
Stone, quindi, autentico reporter sul campo, come si è sentito soprattutto nel faccia a faccia con Putin e che tecnica giornalistica ha usato nel caso in cui si fosse accorto che le risposte fossero più di propaganda anziché veritiere?
«In realtà – spiega Stone – le domande erano state preparate dal regista Igor Lopatonok, che è nato in Ucraina e conosce benissimo la situazione, anche se poi si è trasferito negli Usa ed è diventato cittadino americano. Ho trovato Putin molto competente e preparato sulla questione ucraina: non ha eluso nessuna domanda e non ha avuto bisogno di consultare appunti o altro. Ovviamente anche io avevo una mia idea ben formata sul contesto ucraino e certamente non avrei accettato risposte apertamente in contrasto con l’esatta evoluzione degli eventi, testimoniata dai chiari filmati che si vedono nel documentario». Interviene il regista Lopatonok: «Nell’intervista con Yanukovich a un certo punto ho temuto che l’ex presidente si alzasse e se ne andasse, perché Stone, da buon lottatore, lo stava incalzando con le domande».
Poi però, prosegue Stone, l’intervista è continuata, anzi è stata assai lunga. «Più di quattro ore – sottolinea Stone – che naturalmente nel documentario sono state sintetizzate. Ma mi hanno consentito di farmi un’opinione personale, che non vuole interferire con la visione oggettiva del documentario: credo che forse Yanukovich avrebbe dovuto essere più duro con l’opposizione. Probabilmente la situazione non sarebbe degenerata e lui non sarebbe stato costretto a fuggire in Russia». “Ukraine on fire” in cento minuti dà un bell’esempio di scienze politiche, di storia e di come l’informazione possa essere pericolosamente manipolata da certi potentati finanziari multinazionali. Vengono anzitutto presentate le fasi salienti della storia ucraina del XX secolo: dagli sconquassi causati sul territorio dalle due guerre mondiali, l’insorgere di movimenti nazionalisti, di estrema destra, fortemente antisemiti, al dissolvimento dell’Unione sovietica con la riacquistata indipendenza dell’Ucraina. Vengono descritte le differenze nella popolazione locale, anche linguistiche e culturali, con le aree in cui si parla prevalentemente il russo. Nozioni importanti per un approccio agli eventi a noi più vicini, dalla cosiddetta “Rivoluzione arancione” con il contrasto tra cosiddetti filo-europeisti e filo-russi, fino ai tragici avvenimenti del febbraio 2014 in piazza Maidan a Kiev, noti come “Euromaidan”, che causarono molti morti. Responsabili – secondo molte fonti e secondo “Ukraine on fire – gli agitatori (con cecchini) infiltrati tra i manifestanti allo scopo di interrompere bruscamente la presidenza di Yanukovich.
Si tratta di fatti ancora storicamente scottanti e controversi, che hanno causato l’inasprimento delle sanzioni occidentali alla Russia e che non sempre sono stati adeguatamente interpretati. Anche per l’accelerazione improvvisa, dovuta al referendum con cui la Crimea ha deciso di staccarsi dall’Ucraina per tornare alla Federazione russa, e all’aereo malese abbattuto da un missile nel luglio 2014 sui cieli ucraini: una tragedia accompagnata dalle veementi accuse incrociate tra i nuovi dirigenti ucraini e la Russia.
«Volevamo fare un documentario – racconta Lopatonok – su Euromaidan, ma poi non finivamo più di raccogliere materiale per tutti gli avvenimenti che si susseguivano, finché abbiamo deciso di fermarci, altrimenti staremmo ancora girando perché, come sapete tutti, la situazione è sempre in ebollizione». Adesso Stone spera principalmente che “Ukraine on fire” possa avere la più ampia distribuzione possibile. Ma l’autore di “Platoon”, “Nato il 4 luglio”, “Wall Street” e “JFK” sa che è un’impresa ardua: «Anzitutto – dice – i documentari hanno in generale canali più ristretti rispetto ai film di fiction. Se poi sono “scomodi”, e io stesso ho diretto alcuni documentari non graditi dal sistema dominante, le difficoltà aumentano. Ma sono fiducioso. E anche l’accoglienza così calorosa al Taormina FilmFest mi fa ben sperare».
Concentrato sul lancio di “Ukraine on fire”, Oliver Stone non vorrebbe parlare di altro. Si limita a confermare il suo ritorno alla regia di film con l’altrettanto scottante “Snowden”, che uscirà a dicembre. E risponde laconicamente sulle sue previsioni sul prossimo presidente americano: «La politica estera degli Usa non cambierà. Negli Usa non conta se vincerà Hillary Clinton o Donald Trump. Conta il sistema». Tuttavia, nella parte finale di “Ukraine on fire” che descrive realisticamente l’angoscioso scenario da “Guerra fredda 2.0”, l’ultima parola è “speranza”.