Una tempesta perfetta, sul Regno Unito e sull’Europa. L’incertezza regna sovrana e montagne di danaro si vaporizzano sui mercati all’indomani del voto con cui la fortezza britannica ha alzato sulla Manica il ponte levatoio e ha annunciato la separazione dall’Ue in nome del popolo.
Sull’isola la bufera investe tutti, salvo la regina. Via il primo ministro, sotto tiro il leader dell’opposizione, in pieno shock la City, in bilico la stessa integrità territoriale del Paese: con Scozia e Irlanda del Nord decise a non seguire la maggioranza inglese nel divorzio da Bruxelles.
A dispetto delle affannate rassicurazioni e degli appelli alla responsabilità che riecheggiano dai palazzi della potere di mezzo mondo, l’effetto immediato è stato quello di un colpo da ko. A Londra, David Cameron, travolto dal referendum che egli stesso aveva convocato per un calcolo kamikaze di politica interna, ha annunciato le dimissioni. Resterà in carica giusto tre mesi, da anatra zoppa, in attesa che il Partito Conservatore si dia un nuovo leader: probabilmente l’ex sindaco Boris Johnson, determinante per la vittoria di ieri dei Leave, un istrione fatto apposta - si direbbe - per intendersi con Donald Trump (in visita in un suo hotel di lusso in Scozia proprio ieri e ben disposto verso quella Brexit che invece la sua rivale Hillary Clinton paventa come un macigno).
E intanto sulle piazze borsistiche del pianeta, dall’Asia alle Americhe, è un inseguirsi di cattive notizie. La sterlina va a picco, Wall Street arretra sulla scia dei listini del vecchio continente, dove Milano sprofonda di oltre 12 punti. Mentre l’indice londinese Ftse limita la perdita a un 2,5%, ma in un clima nervoso e popolato d’incognite. Dalle istituzioni finanziarie le prime indicazioni sono quelle rivolte ai due divorziandi, Ue e Gran Bretagna, affinché collaborino almeno “per assicurare una transizione morbida verso nuove relazioni economiche», come afferma la numero uno del Fmi, Christine Lagarde.
La priorità del momento è fissare una sorta di road map fra Bruxelles e Londra. La reazione di Ue e Parlamento Europeo è a cavallo fra cautela e irritazione. Strasburgo chiede alla Gran Bretagna di avviare subito il suo iter, senza dilazioni, mentre il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, prova a esorcizzare il timore di un effetto domino dicendosi convinto che non si tratti della fine del progetto europeo e che si andrà avanti in 27. Sulla stessa linea la cancelliera Angela Merkel, che pure non nasconde la ferita provocata dal «taglio netto» dei sudditi di Sua Maestà. Un mix di inviti e moniti s’incrocia anche da parte dei leader globali: dal Papa, a Barack Obama, a Vladimir Putin, che a dar retta al ministro degli Esteri britannico, Philip Hammond, uno dei cameroniani investiti dalla sconfitta referendaria, dovrebbe avere da celebrare per lo strappo imposto dagli euroscettici. Dalla Nato, del resto, arriva l’invito a puntare sul legame atlantico con Londra, visto che quello europeo appare ormai compromesso. O quasi.
Dimettendosi, Cameron - che ieri ha avuto colloqui con vari leader fra cui Matteo Renzi - ha assicurato che «la volontà del popolo sarà rispettata». Ma ne ha affidato l’attuazione al successore. Mentre ha escluso che cambi qualcosa per gli europei che già sono in Gran Bretagna: italiani inclusi, ha fatto eco il ministro Paolo Gentiloni, di fronte alle preoccupazioni di centinaia di migliaia di connazionali d’oltre Manica.
Johnson, candidato numero uno a subentrare al numero 10 di Downing Street, ha a sua volta abbassato i toni: rivendicando la vittoria, dopo aver reso l’onore delle armi all’amico-nemico Cameron, ma osservando che la Gran Bretagna «resta parte dell’Europa, una grande potenza europea», sebbene intenda “districarsi» dal legame con Bruxelles. E comunque descrivendo un percorso da completare «senza fretta» e senza ricorrere per ora a quell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che l’Ue, per chiarezza, vorrebbe a questo punto veder invece invocato.
A tenere i toni alti provvedono d’altro canto gli euroscettici storici a cominciare da Nigel Farage, leader dell’Ukip, che esalta «la vittoria della gente comune contro le grandi banche, il grande business e i grandi politici». E contagia d’entusiasmo, in giro per il continente, figure come Marine Le Pen o Matteo Salvini. Mentre dal Labour, alle prese con una faida interna contro il leader anti-austerity Jeremy Corbyn, colpito pure lui in qualche modo dalla sconfitta di Remain, torna a farsi sentire la voce - non troppo popolare, ma mediaticamente influente - di Tony Blair: che azzarda addirittura una sorta di congelamento del risultato referendario.