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Turchia, Obama ritira le atomiche

Turchia, Obama ritira le atomiche

Dopo essere entrati nel negozio di cristallerie turche come una mandria di bufali cafri, ora gli americani raccolgono i cocci. Accortisi che il mondo non è più quello di vent’anni fa, Casa Bianca e Pentagono corrono ai ripari, sperando che la pezza non sia peggio del buco. Gli antefatti sono noti a tutti. Un tentativo di colpo di Stato fatto col salame sugli occhi, Erdogan che se la prende a morte con gli Stati Uniti (e con gli europei, tutti girati dall’altro lato, manco stessero giocando a schiaffo al soldato) e Putin che interviene di gran corsa. offrendo solidarietà ai turchi, comprensione, cioè, in pratica, il sacco dei giocattoli di Babbo Natale e della Befana messi assieme. Il “sultano”, a questo punto, non se lo fa ripetere due volte e i brachettoni americani, invece, cercano di rimediare, farfugliando le giustificazioni di Pulcinella (dietro le quinte, è ovvio, per non perdere definitivamente la faccia con tutti i calli). Dunque, eravamo rimasti alla pantomima. Ora il copione, però, è stato riscritto, perché a Washington temono di perdere l’asino con tutte le carrube. Vecchia espressione dialettale sicula, per significare che già una disgrazia basta e avanza. Nell’atto secondo, i cervelloni che affiancano Obama hanno deciso, udite udite, di trasferire le bombe atomiche esistenti sul suolo turco, nelle più sicure basi rumene. Letta così potrebbe sembrare una notizia di “riaggiustamento” strategico, ma a scavare dentro il fatto i contorni si fanno inquietanti. Si, perché avevamo già annunciato la “strana” Santa Alleanza tra Russia e Turchia, con il corollario di paure e sudori freddi dilagante in tutta la Nato. Ora, la mossa Usa sembra proprio una certificazione di quanto ipotizzato: Ankara è nell’Alleanza Atlantica, ma sta giocando con due mazzi di carte, costringendo Obama a fare il primo rilancio per non perdere pure le mutande. Ciò che colpisce di più in questa notizia è il fatto che, evidentemente, al Pentagono pensano che la situazione possa precipitare da un momento all’altro. Per ora, fonti “bene informate” parlano solo degli ordigni tattici stipati a Incirlik, ma si aspettano, a detta degli analisti, imbeccate ancora più raggelanti. L’Occidente sta perdendo la Turchia? Beh, tutto fa pensare che siamo sulla buona strada. E sarebbe una catastrofe diplomatica a livello dei pasticci balcanici da cui poi scaturì la Prima Guerra mondiale. Qua di sicuro non siamo a quei livelli, ma certamente la politica mediorientale Usa (e degli alleati) ne esce con le ossa rotte. Si parla con insistenza di un altro colpo di scena. Cacciati gli americani, a Incirlik potrebbero atterrare i MiG e i Sukhoi di Putin, per la serie “bevetevi il calice fino alla feccia”. Vi ricordate della “Primavera araba “ e della “esportazione della democrazia”? Bene, se eravate “tifosi” di quegli avvenimenti segnatevi dove ci stanno portando. E ancora il muro di calcestruzzo lo dobbiamo prendere, tutto intero e dritto sul musso. Ci risentiamo dopo il botto. La politica estera è l’arte delle cose possibili, non di quelle desiderabili. A cent’anni di distanza anora gli storici non hanno capito perché sia scoppiata la Grande Guerra. E la “crisi di luglio” (del 1914) resta sempre uno dei periodi più studiati, ma che continua a essere tra i più incomprensibili. Historia magistra vitae? Sicuro. Ma solo per quelli che hanno studiato i fatti e ne hanno metabolizzato le alchimie che stanno alla loro origine. Tornando al confronto turco-americano, va sottolineato come l’accerchiamento della base Usa di Incirlik continui, sia pure a intermittenza. In pratica aerei, avieri e piloti di Obama sono tenuti sotto scopa da Erdogan, le cui richieste si fanno sempre più audaci. Pur di estorcere a Washington l’estradizione del “nemico pubblico numero uno” (Fatullah Gulem) il Presidente turco è arrivato a chiedere il “nulear-sharing control”, cioè, in pratica la “doppia chiave” sulle armi nucleari dislocate nel suo Paese.

Gli americani gli hanno risposto picche e sono corsi ai ripari, cominciando il ritiro degli ordigni. Uno smacco per Obama, il quale ha dovuto, naturalmente, scegliere il male minore. Il problema vero è che a ogni passo indietro della Casa Bianca ne corrisponde uno avanti del Cremlino, che sta approfittando della favoletta della “Primavera araba “ per riscrivere tutta la geostrategia del Medio Oriente. L’affaire riguardante il controllo della settantina di bombe atomiche B-61 ha scioccato gli americani, che non se l’aspettavano. Sanno che dietro questa richiesta c’è sicuramente Putin e si sono messi sulla difensiva, arrivando a immaginare di dover sbaraccare completamente da Incirlik, testa di ponte di enorme importanza e piattaforma essenziale per la lotta contro il Califfato. Comunque, al posto di Erdogan conteremmo fino a cento prima di dichiarare vittoria. Putin è abbastanza spregiudicato da utilizzare ed eventualmente “vendersi” anche il sultano turco. Per ora gli conviene fare così e aspettare il cambio della guardia alla Casa Bianca, per saggiare le doti di “incassatrice” di Lady Clinton. Certo, avere tolto il sofà turco da sotto le terga di Obama, vuol dire molto. Un profondo “remaquillage” della regione e l’apertura di una crisi sostanziale per l’Alleanza Atlantica, dagli sviluppi imprevedibili. Sull’emergenza nucleare turca ha lanciato un allarme anche un prestigioso “think tank” Usa, lo Stimson Center, i cui analisti sono preoccupati per la possibilità che uma delle armi atomiche possa finire per vie traverse nelle mani del Califfo. Che non esiterebbe a usarla. La situazione militare sul terreno è in continua evoluzione: in Siria, a Manbij, l’Isis è stato costretto ripiegare. Anche se la sua ritirata è stata ordinata e con scarse perdite di materiale. L’altro cerchio si sta chiudendo in Libia, intorno a Sirte. Le truppe alleate sembrano aver costretto i jihadisti a sparpagliarsi nel deserto dirigendosi verso il Sahara. A Sud, dove le milizie libiche pare abbiano siglato un’intesa con tribù della resistenza. In Siria, un centinaio di uomini ha impedito che le soverchianti forze alleate sbaragliassero l’Isis a Manbij. Insomma, più passa il tempo e meno semplice appare l’impresa di chiudere il conto col Califfo entro l’anno. Erdogan e Putin permettendo. La situazione sul campo è un po’ come quei lavori autostradali che non finiscono mai. Ognuno potrebbe avere interesse a tenere i “cantieri aperti” per stabilizzare la regione a modo suo, incassando i dividendi della politica di “appeasement” condotta a raffiche di Kalashnikov. Un nome a caso? Vladimir Vladimirovic Putin. Non fa mai niente per niente e, quando perde, state sicuri che ha vinto lo stesso.

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