Il cuoco palermitano Filippo La Mantia considera il cibo un manifesto delle sue origini, un legame diretto con la memoria e le tradizioni di famiglia. Negli anni della guerra di mafia a Palermo è stato un fotoreporter, finché nel 2001 ha cambiato vita, scegliendo di mettersi ai fornelli. La Mantia e la celebre foodblogger Chiara Maci, ieri sono stati protagonisti al TaoBuk nell’ambito di “Food Factor”, il ricco ciclo d’incontri “La tavola degli altri”, firmato dai giornalisti enogastronomici Clara e Gigi Padovani.
– La Mantia lei si professa oste e cuoco, non chef. Perché?
«La mia vita in cucina è organizzata come quella di un oste, colui che riceve il cliente, prende le ordinazioni, va a cucinare, porta il piatto al tavolo e infine accompagna il cliente alla porta. Un ruolo a 360° che competerebbe ad ogni cuoco, a prescindere dal locale in cui lavora. L’atmosfera non deve inficiare sul servizio che deve sempre essere impeccabile».
– Nel 2001 lei decise di diventare un cuoco. Come avvenne?
«Già lo facevo per i miei amici. Mi sono trasferito a Roma e ho iniziato un percorso, all’inizio cucinavo a domicilio, poi iniziai a lavorare in alcuni ristoranti finché, a 54 anni, due anni fa, ho aperto il mio primo ristorante a Milano».
– Cos’è per lei la cucina?
«Il profumo. Il cibo di qualità si riconosce dall’olfatto, dagli aromi, è la colonna sonora del gusto. Tutto parte da qui».
Perché cucina solo siciliano?
«Perché sono siciliano, palermitano e orgoglioso d’esserlo. In questi diciassette anni ho portato in giro la mia terra mediante i miei piatti».
– Lei è stato protagonista di tanti eventi internazionali…
«Ma l’evento che porto nel cuore è l’aver partecipato in maniera attiva alle attività di Emergency di Gino Strada, cucinando in Sudan per medici che salvano la vita a bambini».
– Il cibo è solidarietà?
«Senza dubbio. Io organizzo ogni anno quattordici eventi per le onlus, il cibo è un catalizzatore molto importante per sponsorizzare acquisto di materiali sanitari».
– Per lei il cibo è…
«Anche un ricordo dell’infanzia. Non tutti diventano cuochi ma io mi porto dietro i sapori della cucina di mia madre». (