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Marc Augé: migranti? Gli eroi dei nostri tempi

Marc Augé: migranti? Gli eroi dei nostri tempi

Dei paradossi del tempo e dei luoghi, e delle rappresentazioni che l’uomo ha dato di queste categorie Marc Augé parla con la sapienza dei grandi maestri. Ospite di rilievo del Taobuk 2016, abbiamo ascoltato la sua lezione disvelante durante la nostra intervista e poi nell’incontro svoltosi alla Fondazione Mazzullo di Taormina insieme alla giornalista Elvira Terranova, al sindaco di Lampedusa Giusy Nicolini e con il prezioso supporto dell’interprete Paolo Maria Noseda. Con quel delicato ma fermo richiamo alla relatività di concetti e nozioni e quella tensione etica della parola che immediatamente restituisce una visione limpida di questioni/concetti troppo e troppo abusati: la cosiddetta globalizzazione, i cosiddetti migranti, il non-luogo (anch’esso sempre relativo), la periferia (un concetto “morale”, non geografico, giacché esistono periferie anche molto eleganti a Parigi), il tempo, l’individuo, l’alterità, l’identità. La vita individuale per Augé resta la misura di tutte le cose e l’uomo individuale sa di avere bisogno degli altri per esistere. Africanista, studioso delle società complesse, già presidente dell’Ecole del Hautes Etudes en Sciences sociales di Parigi, teorizzatore della surmodernità, un neologismo da lui coniato come quello di non-luogo, Augé ha pubblicato ultimamente “Il tempo senza età: la vecchiaia non esiste” (Raffaello Cortina Editore, 2014) e “Un etnologo al Bistrot” (Raffaello Cortina Editore 2015) - Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, recita il titolo di un Suo libro.

Professore, come regolarci oggi tra questi concetti, luoghi, integrazioni? Lei ha detto che dobbiamo pensare all’idea della mobilità, una nozione estremamente complessa.

«La mobilità è nozione complessa perché sappiamo che dipende da un certo numero di avvenimenti e di cause. Per prima cosa la demografia, causa principe se pensiamo che la popolazione odierna della Cina è uguale all’intera popolazione mondiale all’inizio del XX secolo. Allora essa è anche una fatalità, nel senso che è anche una mobilità obbligata visto che tutti siamo tracimanti dai nostri confini. Il secondo aspetto è quel che si definisce globalizzazione: sono tutti ben consci che di fatto occupiamo lo stesso tipo di superficie e siamo abitanti dello stesso tipo di contesto mondiale, ma con una diversificazione e qui la mobilità assume vari aspetti. Ci sono cantanti, attori, politici, uomini d’affari, che girano il mondo come se fosse il giardino di casa loro. E poi c’è ancora una mobilità obbligata che tutto sommato è analoga alla parola migrazione. Fenomeno relativo che porta ad una nuova risedentarizzazione da parte di chi si muove e cerca appunto di risedentarizzarsi, cosa che dipende da diversi fattori».

Chi sono i migranti del tempo in cui viviamo?

«In effetti si può dire che i migranti siano davvero gli eroi del nostro tempo, perché sono coloro che fanno sforzi sovrumani per rimanere attaccati a un luogo proprio per il fenomeno di risedentarizzazione che implica volontà di intrattenere dei rapporti, delle relazioni con gli altri. Essi determinano la morfologia dei luoghi anche con un attaccamento violento, perché chi ha dovuto spostarsi dai suoi luoghi e deve ritrovare il proprio luogo in cui vivere, anche se in situazioni di non accoglienza, conduce una lotta. E poi le difficoltà sussistono perché esiste un flusso; chi emigra lo fa insieme ad altri, e questo determina il legame tra chi si muove; tutto poi si traspone nel concetto di luogo, che a sua volta si va a trasformare. Il migrante è audace e questo fa paura o crea tensioni soprattutto a chi vive bene nel luogo in cui risiede, ma anche questo diventa “nomade” a sua volta quando va in vacanza».

Si parla tanto di integrazione.

«Non bisogna assolutamente ignorare il fatto che il fenomeno migratorio è individuale, della singola persona, perché è il singolo migrante l’eroe che compie lo sforzo di staccarsi da una pre-esistenza e abbracciare una situazione totalmente nuova. Lo vediamo accadere in Francia dove parliamo di assimilazione, quando si tratta del singolo, e di integrazione quando parliamo di gruppi o di comunità, Integrazione che crea problematiche diverse. Se poi parliamo di concetto di luogo dove vive una comunità, dobbiamo rifarci alla religione; pensiamo all’islam che definisce, appunto, una comunità. In Francia negli anni ’70 si è avuto il problema del cosiddetto ricongiungimento familiare, una politica che a prima vista poteva sembrare generosa ma che fu condotta anche in maniera frettolosa. Si trattava di collocare dei bambini che arrivavano e dovevano frequentare le scuole, inserirsi nel sociale. Proprio questo ha segnato l’inizio dello scollamento tra la loro realtà etnica e la normativa».

Nei Suoi libri, insieme alla riflessione sui luoghi, Lei affronta la questione del tempo. Un tema filosofico antico per il quale cosa apprendere ancora?

«Il problema del tempo è essenziale da affrontare perché nel rapporto tra tempo e singolo c’è da tenere in considerazione tanti aspetti: durata della vita, il suo ritmo, il rapporto con gli altri, un certo senso di solipsismo, il senso dell’esistenza, la morte e la conseguente sparizione. Il tempo che viviamo è sempre più un tempo sociale, di organizzazione, per il quale non si può prescindere dal rapporto intercorrente tra il singolo individuo e la storia, e cioè gli altri».

E il senso degli altri in relazione al tempo, al futuro o al presente, come bisogna viverlo?

«Il senso degli altri è certamente una necessità perché bisogna definire la differenza che intercorre tra il concetto di identità e quello di alterità, e capire cosa significhi alterità perché molto spesso essa dipende dalla educazione genitoriale, dal tuo senso di alterità. Per essere veramente individuo nel pieno senso della parola bisogna aver accumulato tutta una serie di relazioni umane. Dal punto di vista antropologico ci sono, si può dire, tre dimensioni dell’alterità. La dimensione della individualità riguarda ciò che è dentro di noi, la dimensione culturale è determinata dalla necessità di capire le esigenze degli altri, ma anche dalle regole, dalle costrizioni, da una serie di limitazioni derivanti dalle imposizioni delle regole. Quella dell’alterità generica è una dimensione che si rapporta alla individuale e alla culturale (ma non esiste la cultura perfetta) in quanto coscienza che l’uomo ha degli altri. A questo proposito c’è una bellissima definizione di Sartre, che ha detto che ogni uomo rappresenta l’interezza dell’uomo, ogni uomo è un essere umano. Ma l’alterità fa paura perché dentro l’alterità c’è l’orgoglio del luogo di provenienza e anche di sapersene staccare; lo sanno bene i migranti».

Lei si è occupato del luogo-spazio del giardino. E ha scritto “I giardini del Lussemburgo”. Qual è lo sguardo dell’antropologo sul giardino?

«Direi che sono soprattutto interessato al parco cittadino, luogo di centralità, elemento identitario della città stessa. I parchi cittadini sono luoghi pieni di ricordi. Il parco della città, diceva Baudelaire, è una cosa che sopravvive alla mortalità delle persone. Il parco cittadino sostanzialmente non cambia e ciò dà il senso del piacere, il senso della permanenza che si prova quando ci si trova lì. Dentro questo luogo c’è un concetto di perfezione, d’immobilità o di qualcosa che si muove decisamente poco. Anatole France, quando descriveva tutte le regine che ci sono nel parco del Lussemburgo, lo faceva dando quasi la sensazione che fosse un suo ricordo d’infanzia. E io, leggendo a dodici-quindici anni Anatole France, me ne meravigliavo. Ma poi, molto più tardi, a un’età ancora più vetusta di quando scriveva France, quando mi sono occupato di regine francesi mi è capitato stranamente questo gioco di ricordi per cui io stesso ricordavo quel che ricordava Anatole France».

Lei ha parlato sempre di luoghi e di non-luoghi. Esiste un luogo nuovo da qualche tempo, il luogo d’accoglienza, dove vengono ammassati i migranti e che non appartiene né a loro né a noi.. Che luogo è?

«Un non luogo è quello nel quale non si stabiliscono rapporti sociali ben definiti. E i campi d’accoglienza non sono più non-luoghi ma diventano luoghi di relazioni, di legami. Si pensi alla Palestina o al Libano dove ci sono dei campi da anni e anni e dove si sono instaurate relazioni, sono cresciute generazioni. Certo, è una nozione relativa sia quello del luogo che quella del non-luogo. C’è una geometria da tenere in considerazione, un’organizzazione che nell’immaginario è tipica del villaggio tradizionale, del paesino. Come in un paesino anche nel campo profughi c’è una cartografia non solo fisica ma anche spaziale e sociale. Cosa che è andata perduta negli aeroporti, nella metropolitana, nelle autostrade che sono piuttosto non-luoghi, perché le relazioni umane sono fuggevoli o inesistenti. Ora, i luoghi di accoglienza sono spazi di passaggio e di meticciato, ma tutti noi vogliamo credere all’idea di luogo. Il campo d’accoglienza condivide sia l’idea di luogo che l’idea di non-luogo. Il campo profughi raggruppa un po’ questi due aspetti diversi perché, spesso, a causa del passare del tempo, una cosa che è provvisoria diventa un’installazione».

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