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Marc Levy: mi piace giocare coi miei personaggi

Marc Levy: mi piace giocare coi miei personaggi

Marc Levy è il romanziere francese più letto al mondo. Basterebbe questa affermazione, tradotta in trentacinque milioni di copie, per intendere al volo la caratura del personaggio, il valore della sua scrittura, l’amore che i suoi lettori gli tributano ad ogni latitudine. Ma come spesso accade, ciò che colpisce maggiormente dei grandi autori è la loro disponibilità, l’ascolto del pubblico (anche) mediante i social, l’impegno per cause nobili – Levy ha lavorato per la Croce Rossa e Amnesty International – e la capacità di ampliare il proprio sguardo, affrontando come nel caso di questa intervista rilasciata a Gazzetta del Sud, anche i temi dell’attualità. Di recente è tornato in libreria con il suo nuovo romanzo, il sedicesimo, “Lui & Lei” (Rizzoli, pp. 350 euro 18) in cui racconta, con ironia e leggerezza, una storia d’amore. È una commedia romantica sbarazzina ovvero il ritorno in pagina di Mia e Paul, richiamando il romanzo d’esordio, “Se solo fosse vero”.

Lei è un’attrice inglese di successo con un matrimonio infelice, Lui uno scrittore dalle alterne vicende, fidanzato con la sua traduttrice coreana. Entrambe le coppie sono in crisi e per una casualità Paul e Mia si incontreranno, andando alla scoperta di una Parigi nascosta, sconosciuta ai turisti, battibeccando dalla prima all’ultima pagina in attesa del lieto fine. Oggi Marc Levy sarà protagonista della serata finale della sesta edizione del TaoBuk International Book Festival, incontrando il pubblico alle 20 all’Excelsior Palace Hotel, dialogando con la giornalista Eleonora Lombardo.

Paul e Mia di nuovo in azione. Come mai questa scelta?

«Molti lettori mi hanno spesso chiesto un sequel di “Se solo fosse vero”, sperando di ritrovare Arthur e Lauren. E ammetto d’averci pensato a lungo. Eppure il desiderio di trascorrere del tempo con i propri personaggi non è sufficiente per farne un romanzo. Finché non è nata l’idea giusta e tutto è andato come doveva sin da principio. Paul e Mia mi mancavano come gli amici di lungo corso».

Di recente ha dichiarato di “sentirsi un artigiano”. Cioè?

«Anche se ho sempre avuto una passione per la lettura, che devo a mio padre, il mio desiderio di scrivere è sbocciato piuttosto tardi. Quando ho iniziato a farlo, non credevo che “Se solo fosse vero” sarebbe stato un vero e proprio romanzo, figurarsi se immaginavo il successo che ha ottenuto. Non credevo nemmeno che mi avrebbero pubblicato. Ecco, non so spiegare le ragioni del successo ma so una cosa. Non è stato un miracolo. Lavoro duramente, per ogni libro cerco di rinnovarmi e non tento mai di prendere in giro i miei lettori. La curiosità mi spinge ad esplorare luoghi sconosciuti».

L’humour è una componente ricorrente dei suoi libri. È importante saper ridere?

«Vede, proprio per via del fatto che prendo sul serio il mio lavoro, so che è molto importante essere autoironici, imparando a ridere di sé stessi e della vita quotidiana. Con questo libro volevo tornare alla commedia e mi è piaciuto giocare con le incomprensioni e i malintesi dei miei protagonisti, persino con situazioni un poco grottesche, mettendoli alla prova. Sapersi prendere in giro, sapere ridere della vita anche quando ci gioca un brutto tiro, è fondamentale. Credo sia una forma di eleganza».

Lei è francese ma vive negli Usa, modi diversi d’intendere il concetto di identità che affronta anche in questo libro…

«Identità è termine molto importante e centrale nella nostra cultura, spesso persino abusato in questo momento. Mi permetta di uscire dalla sfera politica e citare il meraviglioso discorso del re di Norvegia: “Non è facile sapere da dove veniamo, di che nazionalità siamo. La nostra casa è lì dov’è il nostro cuore e non può sempre essere situato entro i confini di un paese”. Ecco, per quanto mi riguarda ho sempre amato viaggiare, per incontrare e conoscere altre culture. Mi piace vivere all'estero, per entrare in contatto con le persone che hanno un modo diverso di vedere le cose, diversi valori di riferimento e una lingua che suona sconosciuta. Ma tutto ciò ha un significato più alto, di grande umiltà. Non c’è niente che possa essere significativo per noi tutti. I nostri gesti, i nostri costumi, sono figli del paese in cui ci troviamo».

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