Me li sono sempre immaginati vecchietti bizzarri, di quelli con i bermuda e i sandali coi calzini ma capaci di dire freddure in tutte le lingue del globo, o leggere Virgilio in latino e risolvere polinomi prima di dormire. Loro, gli Accademici di Svezia che ogni anno assegnano i Premi Nobel. Ma mentre per Fisica, Medicina e Chimica di solito le obiezioni sono molto poche, per la Letteratura (e non voglio nemmeno menzionare la Pace) tutto di solito è più controverso. Poi, se esiste un Dio delle Coincidenze – come potrebbe raccontarlo Murakami, uno degli eterni candidati, che ogni anno procura un sacco di affari agli allibratori – quella di quest'anno è addirittura esemplare: il perfetto tempismo con cui il Giullare e il Menestrello si son scambiati di posto.
Dario Fo, il gigante delle scene ma non solo, il cui Nobel per la Letteratura era stato accompagnato, nel 1997, da musi storti e gemiti di sgomento, ha lasciato il testimone a Bob Dylan. «Ma chi, il cantante?» mi ha chiesto un’anziana zia, sconcertata come se le avessero detto che John Lennon aveva vinto il Nobel per la Pace (e se lo sarebbe pure meritato, anche solo per “Imagine”). «No, zia: il poeta» le ho risposto.
C’è da tremare al solo pensiero di quello che sarà scritto e detto, nei prossimi giorni, su questa scelta, che può non convincere o non piacere (come allora accadde con Fo), ma ispira senz’altro una considerazione: i signori Accademici svedesi hanno una concezione della letteratura davvero meravigliosa, che talora – e al di là delle singole scelte – sarebbe bello vedere condivisa da editori, commentatori, multinazionali della cultura e semplici lettori.
Le loro scelte quasi sempre spiazzanti – e infatti pressoché mai azzeccate da alcun Toto-Nobel, con buona pace degli allibratori di cui sopra – mettono in gioco, di continuo, un’idea “larga” di letteratura, fuori dalle convenzioni: senza centri di potere e blasoni (quindi ben più ampia dell’Occidente euroamericano), senza cattedre o cattedrali santificate, senza attenzione alle liste, ai listini, ai fatturati, senza timori reverenziali.
Autori amati da tanti, ma non necessariamente da quelli “giusti”, soloni o paperoni della cultura; autori-simbolo capaci di parlare a milioni di persone, con lo speciale potere consolatorio ma non acquiescente della poesia; autori sconosciuti a intere parti del mondo ma, nella loro parte, capaci di armare di coraggio e resistenza umana le parole; autori che sono altrettanti inventori di linguaggi (e non solo utilizzatori, per quanto sopraffini e persino geniali), sovvertitori eppure recuperatori di tradizioni, testimoni di ricerca e di bellezza.
Autori come, ieri, Dario Fo, che ha vivificato la secolare tradizione della Commedia dell’Arte sposandola a una vivida passione civile e politica; autori come, oggi, Bob Dylan, le cui parole sono «soffiate dal vento» nelle orecchie e nei cuori di milioni di persone. Si può, certo, non essere d'accordo; avere in mente, per il Nobel, qualcosa di più vicino a un poeta laureato, a certi grandi vecchi da Meridiano, a certa idea scolastica di modi e forme del raccontare, e non c’è niente di male in questo: la letteratura è una strada vasta, enorme, e si può percorrerla in molti modi. Anche contromano. Come gli accademici svedesi che ci fanno “ciao” con la manina e stanno già pensando alla prossima sorpresa. Anche da un palcoscenico, parlando una lingua inventata, un grammelot furioso e oscuro che sa dirci cose chiarissime. Anche con una chitarra, e il vento a favore.