E' partito direttamente dal presidente russo Vladmir Putin l'ordine di lanciare una campagna per influenzare le elezioni americane. E lo scopo era di screditare Hillary Clinton e aiutare Donald Trump a vincere. Lo hanno stabilito gli 007 americani e lo hanno comunicato al presidente eletto Donald Trump che, costretto dall'evidenza dell'intelligence, alla fine ha concesso che sì, la Russia ci ha provato, ma non ci è riuscita: "L'esito delle elezioni non è stato modificato", ha insistito. Fino alla fine Trump, che tra due settimane giurerà da 45/mo presidente degli Stati Uniti, non aveva voluto cedere di un millimetro nel suo braccio di ferro con gli 007 americani e con Barack Obama, che aveva voluto fare chiarezza attraverso un'inchiesta approfondita sul ruolo di Mosca nelle cyberintrusioni emerse durante la campagna elettorale. Così, a poche ore dal briefing alla Trump Tower con i vertici dell'intelligence, il presidente eletto aveva parlato con il New York Times scagliandosi ancora una volta contro i suoi oppositori, accusati di voler sminuire la sua vittoria: "E' una caccia alle streghe politica ordita dai miei avversari contro di me", aveva detto.
Ma poi il cerchio si è chiuso: il documento classificato che è stato presentato anche a Trump fornisce le prove che la Russia, su ordine di Putin, ha cercato di influenzare le elezioni, puntava ad aiutare Donald Trump a vincere, anche se le sue azioni non hanno influito sull'esito del voto. La reazione di Trump - che ha definito l'incontro "costruttivo" promettendo anche una task force per la cybersicurezza - viene però considerata una 'ammissione a metà' da alcuni. Dai democratici naturalmente, che chiedono al presidente eletto adesso di condannare a chiare lettere l'operato della Russia e di garantire agli americani che non intende mostrare il fianco. Ma anche da diversi repubblicani, che sul 'nuovo approccio' verso Mosca imbastito da Trump hanno sempre avuto da ridire. E' in questo clima che il Congresso, riunito in seduta comune, ha certificato che Donald Trump sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, e che il suo vice sarà Mike Pence. Trump e Pence si insedieranno il 20 gennaio nella tradizionale cerimonia ufficiale a Washington per il giuramento che metterà fine alla transizione cominciata con le migliori intenzioni ma sfociata in una 'battaglia' tra due visioni del mondo, la sua e quella del suo predecessore Barack Obama.
Allora la promessa di rompere con il passato passa anche per usi consolidati, come le nomine degli ambasciatori: il presidente eletto avrebbe chiesto agli ambasciatori 'politici' nominati da Obama di lasciare l'incarico entro il 20 gennaio, senza eccezioni. Le precedenti amministrazioni avevano invece garantito, caso per caso, estensioni degli incarichi per settimane o anche mesi, un passaggio in alcune circostanze ritenuto utile per non creare vuoti inopportuni. E dato che si deve voltare pagina così brutalmente, si attrezza anche l'amministrazione uscente che, in vista dell'ingresso di Trump alla Casa Bianca, mette la sua legacy nero su bianco. Su incarico di Obama, i responsabili di ministeri e agenzie hanno affidato ad inconsueti 'Cabinet Exit Memos' sfide e conquiste degli otto anni a Washington.
Il segretario di Stato John Kerry, l'ambasciatrice all'Onu Samantha Power, i responsabili dei ministeri economici, dell'ambiente e della giustizia, hanno rovesciato sulla squadra di Trump e sul pubblico americano valanghe di carta, sottolineando i punti di forza dell'era Obama, dall'accordo sul nucleare iraniano alla ripresa dei rapporti con Cuba, dall'intesa sul clima alla 'bestia nera' della futura amministrazione repubblicana: la copertura sanitaria per tutti. La pubblicazione degli 'Exit Memos', è inconsueta per un cambio di amministrazione e conferma la distanza ideologica tra quel che è stato e quello che verrà. Non manca però chi nell'entourage di Obama teme che possano in realtà offrire a Trump e al Congresso a guida repubblicana una 'road map' per come smantellare riforme e accordi in quattro e quattr'otto.