Le mani della ’ndrangheta sugli stadi. Da Milano o Torino, le Direzioni distrettuali antimafia indagano sugli interessi delle cosche trapiantate al nord anche in questo settore. D’altronde, dove girano soldi non manca l’interesse criminale. E intorno al pallone, si sa, di denaro ne circola tanto. Bagarinaggio, servizi sugli spalti e vendita di gadget, sciarpe e bandiere - il cosiddetto merchandising, spesso non ufficiale - fanno gola. Secondo la Dda di Torino, ne saprebbero qualcosa i presunti esponenti delle famiglie Pesce Bellocco di Rosarno per i quali è stato appena chiesto il rinvio a giudizio nell’ambito della maxi-inchiesta “Alto Piemonte”: per gli inquirenti una cellula della cosca avrebbe creato un gruppo di ultrà della Juventus in modo di stringere contatti con funzionari e manager della società, ottenere biglietti da rivendere a prezzo maggiorato e proporre il figlio di un “compare” al settore giovanile (che poi comunque non lo ha preso). Già nell’avviso di chiusura delle indagini la società bianconera non figurava come parte offesa né come responsabile: nessuno dei dirigenti bianconeri citati nelle intercettazioni è stato indagato, pare non fossero a conoscenza della presunta levatura criminale di alcuni personaggi con cui potrebbero essere entrati involontariamante in contatto. Nessun sospetto, dunque, sulla Juventus. Comunque sia, per entrare nella curva dello “Stadium”, le nuove leve avrebbero avuto il benestare dei padrini: «Noi abbiamo le spalle coperte, abbiamo i cristiani che contano», dice un indagato intercettato dagli inquirenti. E sarebbe stata anche organizzata anche una “tavola rotonda” con gli altri ultrà per sancire l’ingresso. Un’altra inchiesta, sempre della Dda di Torino, affonda negli interessi di altre famiglie calabresi. Tutto si basa sui racconti fatti ai magistrati da un tifoso bianconero coinvolto nelle inchieste su alcune rapine in banca organizzate dagli ultrà e in quella sul narcotraffico che ha portato dietro le sbarre uno storico leader dei gruppi organizzati torinesi. Ma se su questi aspetti sono ancora in corso approfondimenti, per l’inchiesta “Alto Piemonte” c’è un punto fermo: chiesti dalla Procura torinese i rinvii a giudizio, adesso il gup dovrà fissare l’udienza preliminare. A Milano sono state scritte anche sentenze sugli interessi della ’ndrangheta intorno allo stadio. La Corte d’Appello meneghina ha recentemente confermato le condanne per i sei imputati che avevano scelto il rito ordinario nell’ambito del processo scaturito dall’indagine della Direzione distrettuale antimafia che aveva portato in carcere, a suo tempo, una quarantina di persone accusate di far parte o di fiancheggiare una cosca legata al clan di Reggio Calabria Libri-De Stefano-Tegano che aveva base operativa tra piazza Prealpi e corso Sempione e aveva tentato di mettere le mani sul servizio catering per le partite del Milan a San Siro (anche in questo caso la società sportiva è estranea ad ogni accuse). Le contestazioni andavano dall’associazione per delinquere di stampo mafioso al traffico di stupefacenti alla corruzione ed estorsioni. E il “Meazza” di Milano compare anche nelle carte dell’inchiesta “Six Towns” della Dda di Catanzaro che il 18 ottobre scorso ha portato all’arresto di 36 persone ritenute vicine alla cosca Marrazzo di Belvedere Spinello (Crotone). Nel fascicolo dell’indagine sono finiti i verbali del collaboratore di giustizia Francesco Oliverio che, prima di diventare capolocale del paese, per 20 anni ha vissuto a Rho, dove «fino ai primi anni 2000 non era stato attivato alcun locale di ‘ndrangheta». La ’ndrina distaccata di Belvedere di Spinello, ricostruiscono gli investigatori, avrebbe riservato per sé «la prelazione sul movimento terra, sul racket estorsivo in pregiudizio dei venditori ambulanti di panini in zona San Siro e sullo spaccio al minuto di sostanze stupefacenti».
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