’O Furiere. Quando Hitler venne in Italia in visita ufficiale, nel ’38, i napoletani, a cui non mancano mai arguzia e sfacciata immaginazione, ribattezzarono il suo tonitruante titolo di “führer” in “’O furiere”. Amen. Corto e netto dipinsero l’imbianchino per come lo percepivano, con sanguinosa ironia. Una specie di impiegato statale con impermeabile giallo, cappello floscio e baffetti da pizzicagnolo. Oggi, a ottant’anni di distanza, assistiamo all’apparizione di un altro “furiere”, uno che dovrebbe fare il generale d’Armata e che invece si preoccupa delle licenze dei marescialli.
Donald Trump, 45° Presidente degli Stati Uniti, scaricato sul seggiolone della Casa Bianca dalla dabbenaggine dei repubblicani e dalla spocchia “radical-chic” dei democratici, è un “onorevole” che nella “parapolitica” italiana degli Anni Cinquanta gli studenti s’inventavano per le processioni della Festa della matricola. “Fenomeni” nazionalpopolari, onesti, sanguigni e pieni di sogni, che mischiavano congiuntivi e congiuntiviti. E che, comunque, erano meglio di Trump. Certo, lui è qualcosa di diverso. Era nascosto nelle pieghe della società americana più complessa (e complessata), quella che recrimina sempre sugli altri e sul destino cinico e baro, pronta ad affogare le sue frustrazioni in una cassa di birra, rigorosamente tenuta sotto la branda, e a strafogarsi di patatine fritte e secchielli di maionese. Una società un po’ “wasp” e discretamente forcaiola, dove la colpa di aver perso il lavoro o il sussidio è – ovviamente – sempre degli altri.
In fondo l’America che conosciamo è quella dei film di Clark Gable e Cary Grant, con una spruzzata di John Wayne. Il resto ce lo immaginiamo. I giornali Usa più autorevoli, i blog “à la page” (da “Politico” a “Slate”), i think-tank di ogni college e università, le catene televisive che spaccano il capello in quattro, fanno millanta riflessioni al giorno per cercare di capirci qualcosa. Come ha vinto l’Energumeno? Come si è dissolta in un pomeriggio l’eredità di Obama? Ma Hillary Clinton faceva proprio così schifo da riuscire a perdere anche di fronte a cotanta rustica progenie?
I soldi, si sa, nell’immaginario collettivo generano altri soldi. E i pidocchi fanno pidocchi. Ma non è questa la chiave per capire come mai a Pennsylvania Avenue oggi sventoli la bandiera di un pacchista dalle terga “riuscite”. No. La materia è ben più contorta. E affonda le radici nella tronfia autocelebrazione dei “liberal” Usa (i Clinton non se li fila più nessuno) e nel Conservatorismo “compassionevole” e un po’ calvinista dei Reagan e dei Bush, che, paradossalmente, sembra aver dato qualche speranza in più agli operai della “Rust Belt”.
E la “middle class” tanto cara a un’altra “Dynasty” (quella dei Kennedy)? Scomparsa, stritolata nella morsa della globalizzazione e di una società multietnica che esiste e avanza come un rullo compressore, alla faccia di muri, muretti e delle paturnie del “Furiere” d’Oltreoceano. Il quale dovrebbe preoccuparsi del passivo-monstre della sua bilancia commerciale (-750 miliardi di dollari) e di guidare un Paese spaccato a metà e stralunato e invece perde tempo a contare quei poveretti dei messicani. Ok, gli hanno preparato il compitino dello “Stato dell’Unione” e lui l’ha letto senza far cadere balconate.
Ma perde un collaboratore (e un parente) al giorno nel “Russiagate” e per sciacquarsi la reputazione sfida “crotalo” Putin sul terreno delle spese militari, blaterando di bombe atomiche. Senza dimenticare che, in cauda venenum, se la Federal Reserve alzerà i tassi saranno cavoli amari per i suoi piani di rilancio dell’economia. Trump vuole denunciare Obama? Denunciasse invece chi l’ha votato. Tanto, il mandato non lo finisce.