L’effetto-Trump (politica estera americana caotica e stile “tira a campare”) si fa sentire anche in Medio Oriente. Il vero “bubbone” delle aree di crisi. Si può discutere quanto si vuole sulla congruità delle scelte di Obama e sulle sue giravolte, ma, comunque, il quadro in cui si è mossa la “foreign policy” Usa in tutta la regione finora aveva una sua logicità. L’obiettivo era guerra aperta all’Isis e poi un classico della filosofia strategica propria della Roma dei Cesari: “Divide et impera”. Che, tradotto dal politichese, vuol dire “tieni separati i potenziali nemici e fatti i cavoli tuoi”.
Bene, tutto questo non funziona più. Sarà conseguenza delle risse da cortile e delle sceneggiate napoletane che hanno coinvolto la nuova Amministrazione a stelle e strisce, ma nel Vicino Oriente densi nuvoloni di polvere stanno oscurando le trame pazientemente tessute da Washington negli ultimi otto anni. La parola d’ordine era tenere al guinzaglio (e lontano dalla Siria) Netanyahu e Israele per evitare rogne grosse quanto montagne. Sí, perché tutta l’architrave della politica obamiana era costruire convergenze (“parallele”, si diceva una volta in Italia) tra Gerusalemme e Teheran (arcinemici storici e sfegatati) senza mai farli scontrare. La Siria, campo (neutro) di battaglia privilegiato, è stata il laboratorio di cotanta strategia.
Ma ora il vento è girato. Nel senso che si rischia di alimentare un quadretto diplomatico in cui tutti sono contro tutti, pronti a sparare su ogni cosa che si muove. Dunque, le ultime notizie dicono che gli israeliani, infischiandosene del cambio della guardia alla Casa Bianca (o forse proprio per quello) hanno lanciato un raid aereo contro i siriani (governativi) dalle parti di Palmira. Questi ultimi hanno reagito sparando missili a casaccio e abbattendo (forse) un caccia di Gerusalemme. Tanto per farla corta, i servizi d’informazione israeliani (ufficiosamente) smentiscono e fanno sapere che l’attacco mirava a cambiare i connotati alle milizie di Hezbollah e a lanciare un avvertimento all’ormai incartapecorito Assad. Altre fonti, notoriamente ben documentate, giudicano i chiarimenti di Gerusalemme “questionable” (abbastanza discutibili). La verità è che con Trump l’asse della politica Usa nell’area, pazientemente progettato da Obama, sta andando a catafascio. Netanyahu colpisce Assad (ed Hezbollah) per lanciare un guanto di sfida agli iraniani. Israele non ha mai digerito l’accordo sul nucleare siglato da Washington e da Teheran e ha cercato di sparigliare le carte fin dal primo momento. La Casa Bianca (Obama consule), però, ha tenuto duro e, anzi, ha approfittato della congiuntura diplomatica venutasi a creare per raggiungere un “gentlemen’s agreement” con Vladimir Putin.
Si è arrivati così a una sorta di divisione consensuale con Mosca della macro-area di crisi mediorientale. Cosa buona e giusta. Anzi, vero e proprio uovo di Colombo per cercare di arginare la marea montante dell’Islam radicale. Le elezioni presidenziali americane, però, hanno guastato la festa. Prima ha cominciato Hillary Clinton a straparlare di “nuova Guerra fredda” e poi ha proseguito Trump. L’Energumeno, forse per pararsi la botta dalle accuse di un suo presunto “comparaggio” con Putin, da quando è diventato Presidente sembra voler riprendere la crociata di Reagan contro “l’Impero del male”. Per ora, però, l’unico risultato che ha ottenuto è stato quello di spingere gli israeliani ad accendere i cerini in un deposito di fusti di benzina. Se vorrà ancora giocare al “piccolo chimico” della diplomazia, Trump è meglio che si faccia consigliare da qualcuno che ne capisce più di lui. Perché il rischio è che faccia saltare per aria tutto il laboratorio.
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