Trump è stretto tra due fronti: da un lato deve rintuzzare le accuse di “collusione col nemico” (Mosca), dall’altro, segretamente, continua a cercare sponde nel Cremlino per provare a uscire dal pantano mediorientale, salvando l’osso del collo. La campagna (un po’ fumosa, per la verità) promossa dall’Fbi sul “Russia-gate” e l’impegno a indagare “in tutte le direzioni” non hanno incrinato di un millimetro la sua volontà di spartirsi il sonno con compare Putin. Recentemente, in un’intervista con Fox News, si è lasciato sfuggire una dichiarazione in cui ammette che la collaborazione con la Russia per fronteggiare il terrorismo “è indispensabile”.
Certo, il Presidente-palazzinaro deve stare in campana. Il direttore del Federal Bureau of Investigation, James Comey, fa sul serio. Non scherza. Qualcuno sospetta che stia tirando la volata a chi non vede l’ora di mettere sotto inchiesta Trump per poi defenestrarlo. Comey, insomma, starebbe costruendo un’autostrada per arrivare all’impeachement e sbarazzare gli Stati Uniti (e il mondo) di un leader che potrebbe essere pericoloso per sé e per gli altri.
Per questo Trump, pur convinto della necessità di sostenere l’alleanza siglata in un patto tra ventriloqui con Putin, cerca di nascondere il sole con la rete. Sottobanco, però, l’intesa di amorosi sensi con Mosca continua alla grande e, anzi, si rafforza. Il dialogo è stato avviato in tempi non sospetti dall’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale (poi gettato in pasto ai leoni) Mike Flynn. Comunque sia, dicono i bene informati (a Gerusalemme), l’offensiva degli americani in Siria contro l’Isis è concordata con i russi. Pare che anche i piani d’attacco verso Raqqa siano stati discussi con gli ufficiali dell’ex Armata Rossa.
Ma cosa bolle esattamente in pentola? Secondo diversi analisti, Mosca e Washington hanno raggiunto un’intesa di massima per stabilire nuove basi in Siria. Pieno sostegno, inoltre, sarebbe stato offerto, da entrambe le potenze, ai curdi, per mettere in piedi un vero e proprio esercito. Last but not least, le operazioni aeree verranno condotte in maniera separata, ma agendo in strettissima coordinazione.
Il prezzo che Trump ha dovuto pagare a Putin è salato. Gli americani avrebbero assicurato ai russi la gestione di tutta la fase di transizione politica in Siria. In cambio, il Cremlino ha garantito il suo impegno per svuotare di ogni potere contrattuale (e militare) l’ingombrante presenza nella regione degli iraniani e degli sciiti di Hezbollah. Stesso metro verrà usato coi turchi. Per ora, forze russe hanno preso posizione nel cantone di Afrin. Il portavoce della milizia curda YPG a Qamishli ha annunciato che i consiglieri militari di Putin addestreranno i “peshmerga”. Lo stesso hanno fatto gli americani a Manjib. Per completare il quadretto che testimonia come Trump fili d’amore e d’accordo con Mosca, va anche aggiunto che è stata concordato lo schieramento di reparti speciali russi (i famosi “spetsnaz”) dalle parti di Kafr Janneh, assieme a unità di artiglieria pesante. I curdi, ricevuta carta bianca dal Pentagono, hanno sottoscritto un’intesa in questo senso col comandante in capo delle forze russe in Siria, Luogotenente Generale Alexander Zhuraviev.
Mentre, però, l’arrivo delle truppe di Putin è stato abbondantemente pubblicizzato, quello delle unità americane ad Al-Malikiyah è passato sotto silenzio. E questo può essere spiegato con quanto detto prima: Trump, per ora, vuole sollevare meno polvere possibile. In definitiva, sta continuando ad attuare alcune delle strategie di Obama, ma molto a modo suo. La nuova politica Usa in Medio Oriente, infatti, sembra congegnata per far felici principalmente gli israeliani e per tenersi buono Netanyahu.