Siamo in guerra. Chiamiamo le cose per nome e cognome. Certo, è un conflitto atipico, portato nelle nostre case dal terrorismo. Ma i morti di Stoccolma “fanno il paio” con quelli di Parigi, di Nizza, di Londra, di Berlino e, prima ancora, di Madrid. Un conflitto che parte da lontano: dalle sabbie infuocate del Sahara, dai giardini ubertosi e struggenti della Terra Santa, dalle pietraie della Mesopotamia, dalle colline verdeggianti del Caucaso, fino ad arrivare alle steppe dell’Asia Centrale e ai mari tropicali delle Filippine. L’ombra del fondamentalismo islamico, che si protende sempre più minacciosa, ha perso i contorni geografici e culturali della Mezzaluna e si è allargata. Oggi, come una nuvola plumbea e inquietante, copre i tre quarti del pianeta. Con questa realtà dobbiamo fare i conti. Tutti. All’alba del Terzo millennio, il mondo, lungi dall’essere pacificato, è più rissoso e incomprensibile di prima. La globalizzazione economica ci ha regalato (si fa per dire) anche una società aperta complessa e assolutamente imprevedibile, ridisegnando un sistema quasi ingovernabile. Il terrorismo dell’Isis, che abbiamo definito in “franchising”, sia pure indirettamente, colpisce ancora il Vecchio Continente. L’insicurezza aumenta anche per colpa della politica estera confusa e zigzagante delle grandi potenze. A cominciare dagli Stati Uniti. Dietro i 59 missili da crociera sparati contro Assad si celano alcune risposte e mille interrogativi. Cominciamo dalla fine: la pezza è peggio del buco. “Punire” Assad, ritenuto colpevole per il bombardamento “chimico” di Idlib, lascia il tempo che trova. Discutibile sotto il profilo del Diritto internazionale, la mossa rischia di essere un cerino gettato in un deposito di benzina. All’apparenza sovverte la strategia cooperativa perseguita finora da Obama e dall’Amministrazione democratica in Medio Oriente e segue (pericolosamente) i diktat che arrivano dai “falchi” repubblicani. Quegli stessi ambienti, tutti elmetto, pistola sul comodino e cervello “grosso”, che hanno sulla coscienza la seconda Guerra del Golfo, all’origine di molti nostri mali, tra cui la nascita e l’espansione dell’Isis. L’attacco Usa, inoltre, pregiudica i rapporti con Putin, rischia di far saltare l’intesa nucleare con l’Iran e, aizzando Hezbollah, potrebbe contribuire a mettere a ferro e fuoco il Libano. A cominciare dal Golan. Gratta gratta, però, sotto la vernice spuntano altre possibili verità. E cioè, udite udite, che i russi erano stati avvisati della legnata ad Assad (alleato ormai pericoloso e ingombrante) e che ne hanno addirittura definito le modalità. Ovvero che (ancora peggio) si sia spezzata la “catena di comando” siriana. E cioè che qualcuno degli alti papaveri militari abbia preso un’iniziativa-boomerang senza consultare Assad. Il quale, da questa lurida faccenda, aveva (e ha) tutto da perdere. Anche perché, per ora, l’unico vincitore indiscusso di cotanto polpettone bellico e diplomatico è il Califfo.