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Trump ha stracciato i piani diplomatici di Obama

Trump ci ricasca e inventa attacco in Svezia

L’attacco chimico a Idlib e la conseguente rappresaglia americana, con il lancio di 59 missili da crociera sulla base aerea siriana di Shayrat, hanno scompaginato tutte le trame diplomatiche che Barack Obama aveva pazientemente cercato di tessere nel corso del suo secondo mandato.

E oggi gli assetti geo-strategici di tutto il Medio Oriente sono stati pericolosamente rimessi in discussione. Gli specialisti sono sorpresi. Cosa sta succedendo nelle segrete stanze delle Cancellerie? Perché gli equilibri (non sottoscritti, ma conta poco) che sembravano garantire una sia pur labile “way out” dalla crisi siriana, sono stati bellamente mandati a farsi strabenedire? Le interpretazioni sono diverse, ma tutte puntano in due direzioni, legate da un “fil rouge”: Gerusalemme e Teheran.

La politica mediorientale di Obama, si sa, aveva fatto imbestialire gli israeliani, la cui potentissima lobby americana non era riuscita a “influenzare” (mettiamola così) le scelte della Casa Bianca. L’intesa sul nucleare siglata con gli ayatollah, poi, era stata, la campana a morto per le ambizioni di Netanyahu e gli aveva tolto definitivamente il sonno. La vittoria di Trump ha letteralmente rigirato la frittata. Adesso la “cosca vincente” che affianca l’Energumeno allo Studio Ovale ha deciso: contrordine compagni.

Dopo i giri di valzer e i rovesciamenti delle alleanze, si ripunta, a occhi chiusi e senza esitazioni, sulla galassia sunnita. Gettando a mare gli ayatollah con tutto il turbante. Più facile a dirsi che a farsi. Anche perché gli ex venditori di tappeti (pregiati) e novelli bombaroli atomici non hanno alcuna intenzione di mollare la loro posizione di leader regionali.

Nel Golfo Persico comandano loro. E, se possibile, lo vorrebbero fare anche nel resto del Medio Oriente. Compare Putin li spalleggia, almeno fino a quando gli conviene.

Ergo: deve sostenere anche i “protégée” di Teheran, a cominciare da Assad. Per questo, almeno apparentemente, la scelta di Trump di lanciare i Tomahawk si potrebbe rivelare, come abbiamo già scritto, una pezza peggiore del buco. Punire Bashar al-Assad per “mostrare la bandiera” (fini squisitamente tattici dal punto di vista militare non se ne vedono o, se esistono, sono insignificanti) è il classico cerino gettato in un deposito di benzina.

Lo ripetiamo: la mossa capovolge la strategia cooperativa perseguita dall’Amministrazione democratica e segue i diktat che arrivano dai “falchi” repubblicani. L’attacco Usa, inoltre, rischia di aizzare Hezbollah, che potrebbe essere tentata di mettere a ferro e fuoco il Libano. A cominciare dal Golan.

Secondo noi (ma siamo in buona compagnia), gli americani hanno concordato preventivamente coi russi le modalità della rappresaglia. Patriota sí, ma fesso no. Trump non vuole certo rischiare di prendersi a schiaffoni con Putin, cioè con quella sorta di compare d’anello che ha benevolmente tifato per lui (mettiamo anche questa così) durante le elezioni alla Casa Bianca.

L’Energumeno, però, cammina sulla lama del rasoio. Basta poco per ritrovarsi tutti contro. E per scatenare un vero e proprio terremoto di Casamicciola diplomatico, con conseguenze che sono difficilmente ipotizzabili per la pace internazionale.

Forse, si sarà accorto, il nostro Mr. President, che dialogare col Cremlino e controllare i regimi sunniti senza che gli salti il ticchio è più difficile di comprare vagoni di cemento e trattare con muratori, manovali e capimastro. Come ai tempi belli. Quando faceva il Palazzinaro.

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