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«Se non hai il biglietto dell’amore allora non puoi proprio viaggiare...»

«Se non hai il biglietto dell’amore allora non puoi proprio viaggiare...»

Messina

«Miro un po’ più in alto, voglio competere con lo Zero pop e disinvolto e, se volete, tornare a una scrittura più classica e rigorosa che nella mia carriera ho sfiorato solo in alcune occasioni». Cinquant’anni di parole e note e una serie di messaggi che superano l’esame del tempo e che muovono un intero popolo, il suo popolo, quello dei “sorcini”. Renato Zero riparte, ammesso che si sia mai fermato. E lo fa con un progetto nuovo, tra musica dal vivo e recitazione. Un doppio album – in uscita il 12 maggio – che è anche un mega spettacolo in tour dall’1 luglio (fino al 6 a Roma) con tappe a Lajatico il 29 luglio (nel Teatro del silenzio), all’Arena di Verona (1-2 settembre) per chiudere nell’incantevole scenario del Teatro Antico di Taormina il 7 e 9 settembre.

“Zerovskij... solo per amore”. Un nome, un perché?

«È un nome ironico. Un modo per giocare e incuriosire. La mia è un’operazione sinfonica, sul palco con me ci saranno un’orchestra con 61 musicisti e 30 coristi, più la mia band e gli attori. Zerovskij come Chaikovskij... La verità è che si tratta di una sfida con me stesso. Vorrei tornare a melodie ampie, eterne. Un po’ come ho fatto in passato con “Il cielo”, “I migliori anni della nostra vita”, “Più su”. Affronto questo progetto in punta di piedi, in passato Ennio Morricone arrangiò per i grandi del pop, voglio provarci».

E “solo per amore” per cosa sta?

«Voglio raccontare l’uomo, le sue negazioni, i suoi pregi, anche la morte. Ho provato a renderla non dico piacente ma quantomeno accettabile, quasi simpatica. La Terra è la stazione di partenza, poi la diversità sfiderà la normalità, il buio la luce. Spazio al silenzio, a un sorriso e via cantando. Tocchiamo diversi argomenti ma l’amore è fondamentale, se non hai il biglietto dell’amore non puoi viaggiare. Un messaggio contro tutti i Salvini e i Trump che perdono la ragione sociale del vivere».

Da ieri è on air il primo singolo del nuovo album: “Ti andrebbe di cambiare il mondo?”. Ma Renato Zero il “sollecitatore” (così ti sei sempre definito) vuole ancora cambiare il mondo? Non c’è il rischio di scadere nel moralismo?

«Ho ancora qualcosa da dire, una grande passione e volontà di darmi. Una sorta di giovinezza ostinata, peraltro in un periodo in cui il Paese ha grossi problemi. È bello scendere in campo. In giro avverto troppa apatia e nella gente respiri panico o depressione. Provo a dire la mia, ma il moralismo è una malattia incurabile. E io credo di essere sano».

Renato Zero ha sempre detto che dal dolore nasce qualcosa di straordinario. Lo pensa ancora?

«Sicuro. Se non hai sofferenza non scrivi nulla di buono. Quando ero contento non ho prodotto cose importanti. Credo che le persone che hanno reso di più hanno avuto un percorso accidentato nella vita. La sofferenza forgia».

Allora Renato deve aver sofferto tanto...

«Ho sofferto e col tempo ho imparato a non aver paura del dolore. Ho perso grandi compagni di viaggio: Mia Martini, Rino Gaetano, Ruggero Cini, Lucio Dalla. Restano tutti nella mia playlist e nel mio cuore. È stata la mia sofferenza più grande».

Ma il bambino Renato cosa voleva fare da grande?

«Non volevo diventare grande, vedevo gli anziani, la fatica che facevano e mi dicevo che era meglio non crescere. E in effetti un po’ bambino sono rimasto. Ma ho vissuto bene. Ho avuto una grande papà, poliziotto e undicesimo figlio di famiglia di contadini, e una grande mamma, crocerossina. Quando papà e mamma sono morti li ho cercati in altri. Nel fruttarolo, nella portiera... È sempre stato così, anche nelle mie canzoni. Non mi piacciono gli attici: forse vedi solo l’orizzonte ma non le radici».

Perché da sempre... sboccia un fiore malgrado nessuno lo annaffierà.

«Mi piace il piano mezzanino, una sfera scomoda ma dove tocchi la vita. Nella mia e sul palco porto le ingiustizie, gente disarmata ma che ha una grande vitalità. Ecco perché sono così legato al Sud, dove c’è la sofferenza. Lo dico chiaro: il Nord senza il Sud non sarebbe nulla. I cervelli sono del Sud, lo insegna la storia».

Quelli ritenuti “diversi” abbondano nelle tue canzoni. Cosa pensa delle adozioni da parte delle coppie gay?

«La differenza non la fa il sesso, ma la dolcezza. Non ho mai negato a nessuno il diritto di rendere la propria vita la più felice possibile. Non inizierò oggi. Nel mondo prima di capirsi bisogna rispettarsi».

E i politici? In “Alt” le ha suonate a tutti.

«Purtroppo chi va con lo zoppo impara a zoppicare. Hanno tutti la convinzione che il mondo dipenda da loro. E in parte è vero. Ma non interpretano questo concetto mettendosi al servizio della gente ma solo per i loro interessi. Purtroppo la corte dei miracoli è piena di parassiti».

Quegli stessi politici che hanno tentato di “uccidere” Fonopoli.

«Ma guardi che Fonopoli non è morta. Non ha mai smesso di funzionare, organizziamo tantissime iniziative. Fonopoli ha solo smesso di credere nei politici e in chi voleva venderci ai palazzinari. Volevano solo costruire umiliando l’arte».

E i giovani. I talent fanno bene o sono solo un “misero show”?

«Se non ti fai le ossa suonando al conservatorio o nelle cantine con le cassette vuote della uova per attutire i rumori, se non fai gavetta è tutto effimero. Non dura. Devi approcciarti alla musica con umiltà».

È l’uomo dei record: 38 album, più di 500 canzoni, 45 milioni di dischi venduti, unico ad aver raggiunto il primo posto nelle classifiche italiane per ben cinque decenni consecutivi. Ma Renato Zero come ha superato l’esame del tempo?

«Certo che sono di moda. Guardi quanta pubblicità mi fanno. Tassi zero, Coca zero, costo zero... La verità è una: lo zero da solo non vale niente, ma se lo metti accanto ad un altro numero allora cambia. La vita di Zero... Renato è la stessa cosa: ho fatto tanto perché ho avuto grandi compagni di viaggio».

Salutiamoci col il ricordo di due grandi amici e di due grandi artisti calabresi: Rino Gaetano e Mia Martini.

«Due persone stupende. Rino era un’anima troppo sensibile per la corrida in cui vivevamo e in cui c’era una selezione drammatica. Mimì è la testimonianza di quanto le maldicenze e la cattiveria possano ucciderti. L’hanno crocifissa ma il suo talento è immortale».

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