Il Teatro e la Città: la città della tragedia, in questo caso la possente Tebe dalle Sette Porte, assediata come sono assediate tante città in questo nostro mondo inquieto, oggi. Ma anche la Città, Siracusa, come interlocutrice privilegiata di un lunghissimo rapporto con la grecità e con le rappresentazioni classiche, giunte al cinquantatreesimo ciclo. Questo il tema della stagione - programmata dal commissario straordinario della Fondazione Inda Pier Francesco Pinelli e dal direttore artistico Roberto Andò - che si aprirà al Teatro Greco sabato 6 maggio, alle 18,45, la più lunga di sempre, con "Sette contro Tebe" di Eschilo, messa in scena da Marco Baliani, che si alternerà fino al 25 giugno (tranne il lunedì) con "Fenicie" di Euripide, diretta da Valerio Binasco (al debutto domenica pomeriggio). Dal 29 giugno al 9 luglio (tutti i giorni) andrà invece in scena la commedia "Rane" di Aristofane, con Valentino Picone e Salvo Ficarra, per la regia di Giorgio Barberio Corsetti. A comporre il coro saranno gli allievi dell’Accademia d’arte del dramma antico, una delle eccellenze tra le attività della Fondazione Inda. Giorno 19 giugno giugno è in programma la Giornata del Rifugiato, una serata di spettacolo e riflessione sul tema dei migranti e dei rifugiati.
Di "Sette contro Tebe" - nella traduzione di Giorgio Ieranò, con scena e costumi di Carlo Sala e musiche di Mirto Baliani; in scena Marco Foschi (Eteocle), Anna Della Rosa (Antigone), Aldo Ottobrino (messaggero), Gianni Salvo (aedo), Massimiliano Frascà e Liber Dorizzi - abbiamo parlato con il regista Marco Baliani.
«Il fatto che una città assediata di 2500 anni fa assomigli molto ad una città di oggi - ci dice Baliani - è dato dalle vicende umane. Ma loro migliaia di anni fa avevano colto cosa voleva dire stare dentro psicologicamente ad un mondo assediato. Questo mi sembra sconvolgente. Non c’è bisogno di fare trasposizioni. La contemporaneità dei classici è che parlano il quotidiano e ci permettono di vedere il nostro presente con gli occhi di allora».
È la quarta volta che la tragedia di Eschilo viene messa in scena a Siracusa (1924, 1966 e 2005). Tebe diventa emblema, metafora della città contro le degenerazioni del potere. «Come diceva Calvino, i grandi classici sono tali perché toccano temi che continuano a tornare in noi – spiega Baliani – . In generale le tragedie greche sono il sostrato di tutta la nostra storia occidentale. La sfida è riuscire a raccontare. Riuscire a far sentire che quelle parole in bocca a quei personaggi acquistano una verità e non solo una sonorità filologica. Questo è il lavoro che ho fatto con gli attori. Cercare di essere carnali».
Il regista piemontese paragona subito Tebe ad Aleppo, Mosul, l’altro ieri Sarajevo. «Purtroppo la guerra è sempre uguale. Le donne subiscono le stesse violenze. Succede nei posti in cui si compiono massacri. I greci avevano capito che l’umanità è concentrata in questi conflitti che continuano a produrre angoscia e violenza. Oggi possiamo mettere in scena la grandezza di una tragedia con la distanza etica per avere compassione di quei personaggi asserragliati in quella città e ci permette di capire di più quello che accade in queste città, quello che vediamo in televisione: una donna che cade e urla sotto le bombe. Forse avremo la sensazione di toccare con mano quel panico e quella paura».
Allora ci arriva un insegnamento dai greci?
«Secondo me le tragedie non danno insegnamenti. Non ci sono consigli nascosti. La speranza non c’è mai. Il vero nodo impossibile della tragedia è che la speranza non c’è mai. Il mondo è questo: guardalo. Cosa puoi dare dentro questi conflitti come persona. Antigone cerca di opporsi al fratello, Eteocle è convinto che non si può che andare alla catastrofe. Questi sono i caratteri umani che stanno dentro le vicende nostre, di tutti i giorni, in ogni famiglia. La tragedia però non ti dice non fare questo perché si potrebbe fare altro. La tragedia ti mette di fronte al fatto, per questo è cruda e spietata».
Quindi l’uomo ricade negli stessi errori?
«Oggi continua ad accadere quello che accadeva 3mila anni fa: i vincitori che entrano nella città assediata stuprano le donne, compiono razzie. Facciamo un esempio, Mosul forse sarà liberata dall’Isis: ci sono i curdi, i peshmerga, i curdi filoiracheni, Iraq, Turchia, i russi e filoamericani. Dopo che fanno? Un governo di unità nazionale? No, si scannano. È la dimensione tragica delle guerre. L’uomo ricade sempre e loro lo avevano già capito».
Lei si è detto “impaurito dal palco”, eppure è abituato ai grandi spazi, anzi li predilige.
«Questo spazio è inverosimile: ogni volta che lo calpesti senti di appartenere ad una lunga storia. Tremila anni fa un popolo ha inventato questo mistero di una relazione tra pubblico e attori. Durante le feste religiose ha pensato di mettere in scena i conflitti dell’umanità: le tragedie sono la mappa dei destini dell’umanità. C’è tutto lì dentro. Continuiamo a raccontarcele in forme diverse. Non è che abbiamo inventato molto dopo. Sia Shakespeare che tutti i grandi fino alla serie televisive americane stiamo raccontando quello che loro avevano incapsulato dentro questi testi meravigliosi».
La sua tragedia dà grande spazio ai movimenti in scena.
«È una rappresentazione di corpi narranti. È il mio teatro. Le voci esistono perché i corpi li portano avanti. È un teatro di grande movimento il mio. Io ho lavorato in posti assurdi: so come si lavora nei grandi spazi. Devi mostrare la grande possibilità che i corpi hanno di essere loro la scenografia. Per questo ho lasciato lo spazio vuoto: c’è solo un albero al centro. Il teatro greco è lo spazio giusto: aperto, cielo e bosco dietro».
Eppure alla fine della tragedia si ricomincia con la guerra...
«Fate memoria di quel che accadde, si dice al termine. Serve a ricordare che l’uomo ricade sempre nella stessa trappola. E forse in certi momenti nella storia si può evitare di caderci. Però non accade quasi mai...».