Lunedì 23 Dicembre 2024

La guerra di oggi con le parole di ieri

La guerra di oggi con le parole di ieri

Siracusa

Il Teatro Greco di Siracusa è quel luogo in cui è possibile sentirsi fuori da ogni tempo, ma dentro tutte le cose umane, troppo umane: il dolore, la passione, l’odio, il desiderio di potere, la furia, il timore del divino, la colpa. Ed è un luogo in cui è possibile che si metta in scena una guerra di migliaia di anni fa e che questa ci suoni come una guerra di adesso, di quelle che in questo stesso momento stanno insanguinando troppi luoghi del pianeta. Ci suoni, esattamente: che il rombo della paura, dentro una città assediata, è identico, che venga dagli scudi di bronzo o dalle pale d'un elicottero. Così come il tremore di chi la abita, le sue preghiere, il suo terrore sono uguali. Tebe come Aleppo, Mosul, Kobane.

Tebe dalle sette porte che, nell’allestimento di “Sette contro Tebe” di Eschilo che ha aperto il 53. ciclo di rappresentazioni classiche del benemerito Inda (fino al 25 giugno in alternanza con le “Fenicie”, poi dal 29 al 9 luglio le “Rane” di Giorgio Barberio Corsetti), per la regia di Marco Baliani, è un campo spoglio, dominato da un immenso albero sacro – potente simbolo di stirpe, quasi divinità totemica, arcaica e arborea, della comunità, con le sue radici e le sue fronde (la scenografia è di Carlo Sala, come i costumi). È quella, la città a cui fa riferimento il tema dell’anno, “Il Teatro e la città”, la città perenne come contenitore claustrofobico dell’angoscia, chiusa nelle sue mura immaginarie attorno a cui preme il nemico.

Tragedia percussiva e sonora, continuamente attraversata dai rumori, dagli echi, dai rombi della guerra (e in questa direzione dell’enfatizzazione del suono, molto presente e assaporabile nel testo greco, qui tradotto da Giorgio Ieranò, vanno anche le efficaci musiche di Mirto Baliani), “Sette a Tebe” mette in scena lo scontro fratricida per eccellenza del mito greco: quello fra Eteocle e Polinice, figli della stirpe maledetta di Edipo la cui sventura era cominciata molto prima della loro stessa nascita (tratto fortissimo, quello della colpa “ereditata”, nella concezione eschilea).

Tutta la vicenda mitica è riassunta all'inizio – e sarà chiusa alla fine – dal prologo (non presente in Eschilo e scritto da Baliani) di un inedito “custode del teatro”, delle sue pietre fitte di memoria (l’impeccabile aedo moderno Gianni Salvo): è la storia dei Labdacidi, di Laio, Giocasta, Edipo e i loro figli. Ci troviamo quasi allo snodo finale, quando Eteocle e Polinice, i due figli maschi di Edipo, si scontrano per l’eredità paterna, il governo di Tebe. Noi vediamo il solo Eteocle (un autorevole Marco Foschi), nocchiero della sua città-nave in gran tempesta, dialogare col messaggero (un convincente Aldo Ottobrino, anche nel ruolo dell'araldo) e con il coro, ben più ampio dell’originale gruppo di fanciulle tebane (una menzione speciale deve qui andare ai bravissimi ragazzi dell'Accademia del Dramma antico, sezione Giusto Monaco) e che, grazie ai movimenti ideati da Alessandra Fazzino (non coreografie: semmai l’altra parte delle parole, il dramma, etimologicamente, come “azione”) diventa la comunità sotto assedio che trema e prega; incarna la galleria “animata” e metamorfica di scudi dei sette guerrieri nemici; inscena la lotta e il furore, poi la pena e la pietà per i caduti. Ed ecco che un tempo trascolora nell’altro, ci troviamo fra i crateri delle bombe, tra i profughi siriani, tra gli scampati alle guerre ma non alle distruzioni profonde che esse recano. Tebe è salva, ma Eteocle e Polinice si sono uccisi a vicenda.

A sorpresa, ma ormai nel solco di quella suggestiva coincidenza di ieri e oggi che è la cifra più nitida di questa lettura, si drizza nell’agorà un altoparlante che diffonde il primo proclama del nuovo governo (un’altra “libertà” della regia rispetto al testo greco): onori funebri per Eteocle, nessuna sepoltura per Polinice. Sul dramma dei figli di Edipo, che scontando la colpa del padre pongono il forte interrogativo etico sulla “libertà” dell’individuo e la dialettica tra scelta e destino, s’innesta un ulteriore tema: il rapporto tra verità e potere (che oggi, nel mondo dei “fatti alternativi”, è per noi cruciale), e tra potere e giustizia.

Viene qui accolta nel testo una scena finale non scritta da Eschilo ma aggiunta nella tradizione in tempi remoti, probabilmente per farne un “prequel” della successiva, celeberrima tragedia di Sofocle: si chiude il dramma dei fratelli nemici, il dramma di Antigone (Anna Della Rosa) va a cominciare: la tragedia è una catena ininterrotta, fino a oggi, fino a qui.

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In ogni guerra, del passato o del presente, ci sono sempre fratelli contrapposti: fratelli umani. Una delle storie più vecchie del mondo, e destinata a ripetersi senza sosta. Ed eccoli, i fratelli: Eteocle e Polinice. Sono loro i protagonisti di questo 53. ciclo di rappresentazioni classiche siracusane. E se nei “Sette contro Tebe”di Eschilo abbiamo visto il solo Eteocle, nelle “Fenicie”di Euripide –dramma profondamente diverso per genesi, struttura e tessitura drammatica, pur raccontando la stessa vicenda – , con la regia di Valerio Binasco, vanno in scena entrambi i fratelli, ma stavolta con tutta la tragica famiglia a cui appartengono: quella di Edipo.

La città di Tebe qui è un'unica macchia sanguigna, come a delineare quella disperata “con-san - guineità” che stringe tutti i personaggi e li rovescerà nel sangue, a cominciare dalla madre dei fratelli, una Grande Madre, una Giocasta (con il nerbo e la forza espressiva di Isa Danieli) che nella prima parte è il fulcro stesso della tragedia. È lei a tentare un’impossibile, disperata mediazione tra i due figli in lotta: Eteocle (Guido Caprino) e Polinice (Gianmaria Martini) si urlano contro (forse anche troppo: la cifra della rabbia, ancorché molto umana, diventa monocorde) le ragioni, opposte e coincidenti, del loro scontro. È Giocasta a riassumere tutta la storia della famiglia, lei baricentro del dolore, corpo attraverso cui si sono compiuti i disegni oscuri degli dei. Ma assieme ad essi – e qui è la novità di Euripide – ci sono tutte le motivazioni e le componenti umane: la sete di potere, la vendetta, la meschinità. Eteocle è fissato nella sua brama di dominio, Polinice nel suo bisogno di rivalsa: incomunicabili. Quanto dev'essere accogliente e profondo, il cuore di una madre, per amare entrambi: Euripide lo descrive con grandiosa finezza, perfettamente resa dalla Danieli.

Anche qui in scena (firmata, pure questa, da Carlo Sala, come i costumi) un albero: non il rigoglioso totem vegetale che abbiamo visto nella scena dei “Sette contro Tebe”, ma un relitto calcinato, con le radici per aria. È un'epoca diversa, e la polisdi Euripide soffre sotto l’attacco del pericoloso “relativismo” che viene dai sofisti. I concetti di giustizia, valore, legge rischiano di disfarsi nel gioco e nella retorica delle parti (un problema molto simile a quello dei “fatti alternativi” che oggi hanno la pretesa di ri-fondare la verità), segnando un ritorno ai tempi oscuri del diritto del più forte. Tutti questi temi –nella bella traduzione di Enrico Medda – affiorano potentemente nel contrasto tra i due re e nella vicenda di Creonte, fratello di Giocasta (un abile Michele Di Mauro), che tenta di salvare la vita del giovane figlio Meneceo (un acerbo Matteo Francomano) alla luce di una “doppia morale”opportunista che il ragazzo rifiuta.

A tutto ciò assistono le Fenicie del coro (gli Allievi dell’Accademia d’arte del Dramma antico), straniere di passaggio a Tebe, e il loro punto di vista è quello di pure spettatrici, ma anche portatrici d’un “altrove” straniante: il loro aspetto evoca le profughe dell’Est, forse ebree durante la seconda guerra mondiale (e le uniformi militari dei tebani in scena, a sottolineare la legge marziale che governa la città, richiamano quelle sovietiche e tedesche), mentre la fissità delle loro maschere, i gesti con cui rappresentano l’antico mito fondativo di Tebe e l’accento straniero con cui la prima corifea (Simonetta Cartia) recita conferiscono loro un tono ieratico da misteriose, arcaiche sacerdotesse, custodi di ciò che è sottratto alla storia e al divenire umano. Una ricchezza di spunti e di temi non del tutto coerente e governata, e a volte palesemente eccedente (come nell’insistito spunto comico in siciliano dell’araldo Massimo Cagnina, che strappa al pubblico una risata) o non chiaramente comprensibile (come le figure di Tiresia, Alarico Salaroli, ed Edipo, l’attore italo-giapponese Hal Yamanuchi). Efficace, invece, la scena iniziale in cui una fanciullesca Antigone un po’Alice (una fresca Giordana Faggiano), poi destinata a perdere l'innocenza e assumere su di sé tutto il peso della tragedia familiare, dialoga col pedagogo (il bravo Simone Luglio) arrampicata sui rami secchi dell’albero, come sulle mura di Tebe.

Molto interessanti le musiche di Arturo Annecchino: un pianoforte digitale presente in scena, suonato da Eugenia Tamburri, è contrappuntato da un pianoforte registrato. Anche qui si mescolano e s’affrontano note insistenti, vibrate in scena o riprodotte, uguali a se stesse eppure continuamente dissonanti. Come l’animo umano, come le parole eterne della tragedia.

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