Terrorismo: stendiamo un velo pietoso sulla comparsata di Taormina. Di quello che è stato detto (assai), e di quello che è stato stretto (molto poco), parleremo in seguito. Per ora ci interessa sottolineare l’emergere di uno dei pericoli che avevamo intravisto nei lavori preparatori del G7, e cioè la possibilità di un “overlapping”, cioè di un imbroglio di lingue, data la miriade di problemi scaraventati alla rinfusa sul tavolo dei Grandi. Dopo gli attentati di Manchester e quello contro i fedeli copti in Egitto, ci sembra che l’ora delle chiacchiere sia finita. C’è un problema alla base che non è stato ancora risolto. Oggi, per combattere il terrorismo internazionale di matrice islamica (sunnita), ci vogliono meno cannoni e bombarde e più lavoro di intelligence. Esattamente il contrario di quello che sta facendo Mister Trump muovendo i suoi primi passi, alquanto impacciati, in politica estera. “Vincere! E vinceremo”. Questo lo slogan, un po’ sbiadito e scalognato, visto com’è finito l’ultimo che l’ha tirato fuori, che il Presidente degli Stati Uniti ha pronunciato parlando nella enclave americana di Sigonella, dopo il G7. Siamo alle solite. Dando una mano di vernice sui problemi di più scottante attualità, si pensa di indorare la pillola all’opinione pubblica, sempre più instupidita dagli avvenimenti e sempre più impaurita da eventi che nessuno sembra in grado né di pronosticare e né di bloccare. Quando Trump, per cementare il suo blocco sunnita e per fare business, ha venduto una miliardata di armi all’Arabia Saudita, in effetti ha dimostrato due cose. Di badare solo al colore dei dollari e di fregarsene altamente delle ripercussioni di una tale politica sui precari equilibri di tutto il Medio Oriente. Secondo alcuni servizi segreti occidentali, l’attentato di Manchester, ad esempio, ha dimostrato l’estrema vulnerabilità del sistema di sicurezza britannico. Gli ex prestigiosi uffici dell’Emme I5 (affari interni e controspionaggio) e dell’Emme I6 (affari esterni e spionaggio) hanno rivelato, tra la costernazione degli specialisti, che la rete terroristica sul suolo britannico era stata tessuta da tempo e che gli 007 inglesi se ne sono accorti solo a cose fatte. Lo stesso Salman Abedi, l’attentatore kamikaze che ha colpito durante il concerto, era già conosciuto dalle autorità di polizia, che però lo reputavano “di scarsa pericolosità”. Il lato tragicomico della vicenda è che mentre gli inglesi giudicavano Abedi una figura minore, i servizi francesi avevano cominciato ad accumulare un vero e proprio dossier su di lui, sottolineandone la pericolosità. Questo tanto per far capire a che punto è in Europa la collaborazione tra le agenzie di intelligence. Cambiando scenario, ma restando sempre nella stessa macro-area di crisi, anche in Egitto i nodi sono venuti al pettine. L’assalto contro i cristiani copti e il massacro successivo fanno parte di una strategia che abbiamo già ampiamente anticipato e documentato mesi or sono. L’Isis, molto semplicemente, sta cercando di alimentare lo “scontro tra civiltà” teorizzato lustri or sono da Samuel Huntington. In questa fase, quindi, sparare nel mucchio e colpire i cristiani senza alcun criterio, non fa altro che alimentare la tensione, facendola salire alle stelle. Nel Sinai, i “califfi” stanno facendo mangiare alle truppe del Cairo la polvere e le mani con tutti i gomiti, difendendo strenuamente la loro roccaforte del Monte Jabal Halal, nel cuore della penisola. Il complesso difensivo è attraversato da una ragnatela di gallerie sotterranee, che lo hanno già fatto soprannominare la “Tora Bora” del Medio Oriente, accomunandolo all’imprendibile rifugio di Osama bin Laden in Asia Centrale. Così i “capataz” dell’Isis hanno potuto “smontare” e rimontare le cellule beduine che operano nella zona. Considerato che ogni tribù è composta da 100 mila persone, e che nel Sinai ce ne sono una decina, i fondamentalisti hanno rimescolato le brigate, cercando di formare un esercito più omogeneo.
L’obiettivo è quello di organizzare un’ondata di attacchi terroristici nel Golfo di Aqaba (Sharm el-Sheik?) e sul Mar Rosso tout-court, colpendo i gangli vitali dell’economia turistica egiziana. A rischio anche il porto israeliano di Eilat. Gli esperti giudicano “sotto scopa”, comunque, tutta la fascia costiera che arriva fino a Ras Muhamad. E ritengono, come abbiamo già scritto, che lo stesso centro di Aqaba possa essere un bersaglio appetibile per destabilizzare il settore terziario del sistema produttivo giordano.
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