Messina
“Il regalo più grande” lo consegnerà personalmente dal palco del San Filippo agli oltre 36 mila che staranno lì dentro ad aspettarlo (restano disponibili gli ultimi 3mila biglietti). A ciascuno di loro.
Con quella capacità che Tiziano Ferro ha di essere intimo anche nella festa, di essere liquido come una colata di musica nella terra del Vulcano. Un effetto speciale che sa declinarsi nella normalità della vita, capace di porre accenti dove non ti aspetti, al ritmo di quella metrica che è il suo brand innato eppure consolidato. Col risultato che ad ascoltare le sue canzoni ti ritrovi a pensare che riguardino te.
La stessa sensazione che emerge dall’intervista che segue, prima parte di una sorta di triangolo che nei prossimi giorni si completerà con la pubblicazione delle 10 domande dei lettori, vincitori dell’iniziativa della Gazzetta del Sud, e le risposte del cantautore.
Da Latina a Los Angeles, passando per Messico, Inghilterra e Spagna. Sei tra i pochi italiani della musica “contemporanea” conosciuto e riconoscibile oltre i confini.
«Penso che la questione dei confini sia poco utile non soltanto nella musica, ma anche nella vita. Mi è sempre piaciuto sentirmi cittadino del mondo, ho sempre ascoltato musica diversa, a cominciare da quella dei miei genitori che ascoltavano dai cantautori italiani al rock inglese. Confesso di fare sempre molta fatica a catalogare la musica, a catalogare i generi. Non amo i generi. Adoro il pop perché è la rivoluzione del genere, va contro tutti e prende tutto. Prende da tutti i generi e se ne frega... e questa cosa mi diverte».
In più occasioni hai definito il nuovo album un “re-inizio”. Recupero di qualcosa che ti sei perso strada facendo o più semplicemente corsi e ricorsi storici?
«Io la vedo così: la vita è ciclica, fatta di insegnamenti che tornano utili, raccogli i frutti, passi da un capitolo ad un altro come fosse un esordio continuo. E poi succede, come è successo a me, che ti trovi a rifare delle cose. Questo disco è stato come il riassunto delle lezioni imparate in precedenza, ho toccato argomenti e scelto suoni che in passato avevo già affrontato, ma con una visione più matura. Non c’è un senso di dramma dietro questo re-inizio, c’è piuttosto grande gioia, luce. Questo disco è nato da piccoli momenti di crisi che oggi non ci sono più, l’importante è l’atteggiamento costruttivo che si ha nei confronti della crisi».
Ne “Il Mestiere della vita” ti rivolgi al cielo (“se piovessero dal cielo”, “un cielo girato di spalle”, “la vita ci piove addosso”). C’è un legame tra quaggiù e lassù?
«Per questa domanda forse avrei bisogno di un’ora intera. Io sono una persona estremamente spirituale, mi prendo cura del mio corpo, della mia mente, ma ancora di più del mio spirito. Sono convinto – e lo dirò anche all’inizio dello spettacolo – che la cosa più giusta da fare quando ci si alza la mattina è affrontare la giornata convinti del fatto che ci siano delle cose che puoi gestire e cambiare e delle altre che non puoi cambiare. E queste le devi accettare come parte di uno schema, di un destino. C’è chi crede a Dio e parla di Dio, ma ognuno può chiamarlo come vuole, non c’è bisogno di dargli un nome. Penso soltanto che la vita, in generale, sia spesso molto più fantasiosa di noi ed in fondo è giusto lasciarla fare quando non siamo in grado di modificarla. Quando, invece, è nelle nostre possibilità, trovo giusto che siamo noi a fare».
L’interpretazione di Carmen Consoli ne “Il Conforto” è una sorta di continuità naturale con la tua voce. Poteva anche non essere un duetto? Nel video c’è un omaggio all’abbraccio tra Peter Gabriel e Kate Bush in “Don't Give Up”?
«Lei, in un concerto al Forum di Assago di un paio di anni fa, prima di cantare “Guarda l’alba”, disse: “Ora canto la canzone che ho scritto con la mia controparte maschile”. Non mi arrogo il diritto di dire che avesse ragione, però mi piace l’idea che possa essere così. Abbiamo dei toni di voce e un modo di cantare complementari, tanto è vero che nella registrazione del disco sembrava che cantassimo insieme da vent’anni e invece era la prima volta che registravamo un pezzo, questo pezzo. Avevamo già collaborato in precedenza, ma duettare mai. Questa esperienza è nata in maniera piuttosto spontanea, grazie ad un carico di empatia reale. Sono cose che non puoi decidere a tavolino, non le puoi controllare: per fortuna è successo. Poteva non essere un duetto perché quando l’ho scritta l’ho fatto con Emanuele Dabbono (che è autore e un mio amico da oltre vent’anni) e non ce lo eravamo prefissato. Però quando ho finito di scriverla ho pensato subito che avrei voluto un duetto. Ma al video di Don’t Give Up no, non ci avevo pensato».
“Lento/Veloce”, ma anche “prossimità e vicinanza”, “distanza e lontananza”. Dicotomie che tu risolvi... in cosa?
«Premetto che io posto dei video pochissime volte (anche perché i miei genitori mi hanno sempre insegnato a parlare solo quando ho qualcosa da dire), ma in questo momento lo sto facendo spesso. Perché in questa fase della mia vita ho parecchio da dire, perché ho bisogno di trasferire agli altri le tante esperienze che sto accumulando. Quindi ultimamente ho postato un video che iniziava così: “Sono pesci, ho due lati: uno complesso e uno complessissimo”. Le dicotomie fanno parte della mia vita. Ho studiato al liceo scientifico, poi Ingegneria eppure ho finito per fare il cantautore. I due lati del mio carattere, quello organizzatore, razionale controllatore e quello romantico, ventrale, d’istinto si scontrano tutti i giorni e il risultato è una sorta di casino che è la mia vita. E questo casino probabilmente non si risolve in niente, però ogni tanto funziona e fa nascere cose interessanti. Io sono convinto che la mia vita sia stata più che la risoluzione, l’effetto collaterale di questa lotta tra opposti».
Com’è “Il mestiere della vita”?
«È duro, è divertente, è faticoso, è appagante e a volte mi rende insofferente. Diciamo che, qualunque sia la declinazione del verbo, mi piace sempre avvicinarmi ogni mattina a questo mestiere con grande positività. Non voglio parlare di bicchieri mezzi pieni perché forse è anche un po’ troppo banale come visione. Ma talvolta basta anche solo una goccia d’acqua. Io sono uno molto costruttivo e anche nei momenti di dolore tento sempre di vedere il lato più bello. E poi c’è la musica. La musica mi ha salvato. Mi ha portato ad entrare in contatto con i miei luoghi fragili. Nella mia vita spesso ho creduto più ai cantanti che ad alcuni preti o psicologi».
Cinque dischi in 16 anni, per il prossimo tour bisognerà aspettare il 2020. Esiste anche l’ansia da ispirazione?
«È il ciclo normale delle cose. Questo disco è uscito l’anno scorso, alla fine del 2016, il tour finirà adesso e non ci saranno ribattute. Poi il tempo di scriverne uno nuovo e si esce. Insomma nessun dramma, nessuna separazione forzata. Semplicemente un corso di cose che mi portano per necessità ad isolarmi un po’ per scrivere. Per me la scrittura è un momento solo mio, è stata molto enfatizzata questa cosa dei due anni perché ormai nessuno aspetta più due anni per farsi risentire. Però io in realtà l’ho sempre fatto e sempre detto, anche se nella discografia di oggi suona come una follia».
Gli stadi per te si sono rivelati una dimensione più che un contesto. Il San Filippo di Messina come lo immagini?
«Gli stadi sono magnificatori di empatia, sono qualcosa di incredibile. Uno all’inizio non ci crede, non riesce a capire come uno spazio così grande possa in realtà rivelarsi così intimo. Ma succede. Non lo so, è difficile dare una spiegazione razionale ma è così. Gli effetti speciali? Servono solo se sono al servizio della musica. E questo è un concerto al quale puoi assistere restando tutto il tempo con gli occhi chiusi. Tutto questo trasportato a Messina, alla Sicilia non può che diventare una bomba di emozioni fuori controllo. E io non vedo l’ora».
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