Trump, come se non bastasse il resto, ora minaccia di “opzione militare” anche il Venezuela di Nicolàs Maduro, dove la Costituzione vale quanto il gioco dell’oca. Spacconate? Sicuro, ma non senza qualche fondamento, dato che la crisi istituzionale si è sviluppata nel retrobottega degli Stati Uniti e l’inquilino della Casa si è persino negato al telefono. Morto un papa se ne fa un altro. Doveva funzionare così anche a Caracas, ma non sempre i vecchi detti rispecchiano la realtà del fatti. Pigliate il caso in questione e occhio, perché l’affaire, capita sempre più spesso quando “se habla” di America Latina, è scivoloso come mille saponette. Dunque, passato a miglior vita il vecchio “caudillo” nazional-bolivarense-comunista, Hugo Chàvez, si pensava che il nuovo Presidente, Maduro, saltafossi e biscazziere quanto quello vecchio, avrebbe trovato più facile governare. In fondo, sembrava abbastanza semplice applicare la vecchia formuletta dei “descamisados” peronisti: “panem et circenses”. Il tutto con una spruzzatina di sano nazionalismo anti-americano e una passata di nobili richiami alla “revoluciòn” in qualsiasi salsa. Cubana, sandinista, de Mexico o anche affogata nel ketchup degli odiatissimi gringos. Insomma, ogni richiamo “a los trabajadores” e alle bieche multinazionali di Wall Street faceva brodo. E invece no. Tra il Vangelo di Marx, la Teologia della liberazione, l’ottusa oppressione dei “fazenderos” e la sacrosanta richiesta delle terre ai campesinos ci stanno un sacco e una sporta di distinguo. Anzi, a dirla tutta, coi tempi che corrono, per governare oggi un Paese dell’America Latina non basterebbe nemmeno consultare un’enciclopedia in 21 volumi di scienze politiche. Uno sviluppo economico “asimmetrico”, l’evoluzione un po’ schizoide della politica internazionale, il rimescolamento tumultuoso e caotico della struttura sociale, hanno imbrogliato le carte. Semplicemente, si sono persi i vecchi punti di riferimento. Sepolto a Cuba il “Leader maximo” con tutto il sigaro, affondato il Messico delle grandi battaglie sociali in un oceano di eroina, fondata in Colombia una Repubblica dove sniffano pure i gatti, inseguiti da giudici e polizia i presidenti “progressisti” brasileri, presa a scoppole dalla crisi l’economia argentina, attualmente le certezze in quelle lontane contrade sono ridotte al lumicino. Papa Francesco (per quello che vale) e poco altro. Il resto è giungla d’asfalto, anzi, lotta quotidiana per la sopravvivenza, dalle favelas di Rio alle bidonville di Bogotà. Evo Morales in Bolivia difende sì i coltivatori, ma di droga, e Kuczynski, in Perù, ha schiaffato il telefono in faccia a mezzo governo di Caracas Se questa è la cornice, immaginatevi il quadro.
Chàvez in Venezuela ha fatto qualche cosa buona e molte cattive. A cominciare dalle politiche di assistenza, per le quali si sono gettati dalle finestre del “Palacio” i miliardi di dollari arrivati col petrolio. Il Napoleone rosso (con lo scolapasta in testa) il consenso se lo comprava. E se non bastava, imbrogliava le carte. Punto. Lo votava quel 52% di popolazione sfamata dalle elemosine di Stato, mentre gli altri venezuelani sgobbavano come camalli e mantenevano il carrozzone. Bastone e carota, insomma, distribuiti con abbondante astigmatismo. Oggi Nicolàs Maduro vorrebbe copiare Chàvez e dare lunga vita “a la revoluciòn” dei magnaccioni. Impossibile, perché i tempi sono cambiati e quell’America Latina vagheggiata dalla “Teologia della liberazione” esiste solo in qualche landa desolata e selvaggia della foresta amazzonica.
Magari dove ancora non sono arrivati i gesuiti. Il resto è una catastrofe perfetta, partorita dalla globalizzazione. Se questo sia frutto del marxismo che ha perso o del capitalismo che ha vinto (per chi fa finta di crederci) non lo sappiamo. Maduro può stirare finché vuole quella che chiama “democrazia popolare”, come la pasta per la pizza. Si vedranno sempre i buchi. Fino a quando qualcuno non farà fare pure a lui la fine di una fumante “margherita”. Pappandoselo con quattro bocconi.
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