Ormai lo sappiamo a memoria: la lite è sempre per la coperta. Ditelo come volete, in latino con il “cui prodest” o in inglese con il “to whom it may concern”, ogni mossa nell’arena internazionale tiene prima di tutto presente non solo la sicurezza globale, ma anche i mercati. E siccome l’economia è fatta di aspettative, alimentare previsioni pessimistiche significa gettare benzina sul fuoco delle crisi. Quelle attuali e quelle ancora da venire.
Nel caso specifico, parliamo del confronto sempre più in stile “ultima sfida all’Ok Corral”, tra il guappo di Pyongyang e il nuovo Presidente-palazzinaro degli Stati Uniti. Gli analisti, dopo avere esaminato i primi effetti pratici della “Trumpnomics”, la dottrina economica della nuova Casa Bianca, adesso tirano le somme. Cominciamo dall’abc: ci vogliono meno tasse per fare ripartire i sistemi produttivi. Questo lo sanno anche gli asini che volano, meno quelli che occupano, spesso, posti di responsabilità ai vertici degli Stati.
Comandare, si dice, è meglio di qualche altra cosa, per cui a blaterare impegni si fa presto, ma alla fine finiscono per parlare i numeri. E lì sono cavoli amari. Ma torniamo alla partita Trump contro Kim. Dietro il politichese sanguigno di Washington, si celano minacce lanciate di sguincio non tanto alla Corea del Nord, quanto piuttosto agli amici-nemici cinesi: subirete ritorsioni finanziarie e commerciali che vi faranno finire in anticipo la festa della Befana, che ormai l’economia di Pechino celebra da lunga pezza.
Sotto sotto, secondo diversi esperti che la vedono lunga e maliziosa, le minacce protezionistiche di Trump erano proprio rivolte verso la Grande Muraglia, una volta fatta di mattoni per arrestare i mongoli e oggi costruita su mutande, padelle, computer e macchine sofisticate per conquistare tutti i mercati mondiali, dai superstore alle bancarelle più scalcagnate.
Agli occhi dei cinesi niente fa differenza, “pecunia non olet” o “business is business”. Secondo Larry Elliot, editorialista economico del “The Guardian”, la rissa da Quartieri spagnoli napoletani tra la Corea del Nord e gli Usa potrebbe regalare ai mercati internazionali una seconda ondata di gelo.
L’asfissiante crisi finanziaria ha indotto gli Stati a fare la politica “della pidocchia”: erogare meno servizi e mettere le mani in tasca ai cittadini. Punto. Questo vale per tutti, ma per alcuni in particolare (e non facciamo nomi). Per cui, chi vi parla di burocrazia efficiente, di Paese legale vicino a quello reale, di incentivi alla crescita e di altre spacconate simili, cerca solo di vendervi olio di serpente. Ma torniamo agli Stati Uniti. Se si tireranno le carte al petto e altrettanto farà l’Europa, a chi venderanno le loro padelle e i loro millanta prodotti da suk levantino gli amici cinesi? Per ora stanno cercando di metterci una pezza.
Come? Alimentando la domanda interna, grazie a una politica del credito molto allegra, per non dire all’insegna dello “sciala-popolo”. Ma, come l’Occidente,.anche la Cina arriverà allo scasso. Il futuro che ci aspetta, dunque, è fatto di crisi finanziarie ricorrenti, dove, come nella Catena di Sant’Antonio, il primo farabutto che entra nel gioco vince sempre e gli altri allocchi perdono senza pietà.
Allora, ricapitoliamo. Trump a chiacchiere minaccia la Corea del Nord, ma dietro le quinte manda a dire ai cinesi “datevi una mossa o mettete mano al borsellino”. I cinesi, però, prevedendo prima o dopo di cadere ostaggio dei terribili anatemi protezionistici della nuova Amministrazione Usa, si stanno attrezzando. Facendo anche loro debiti.
Ergo: la prossima bomba termonucleare che scoppierà sul pianeta non la porteranno i missili, ma le banche centrali e cadrà direttamente nelle Borse dei Paesi più importanti. Per ora, tutti fanno finta di niente.
Pigliate il Giappone. Gli ultimi indicatori dicono che il Sol Levante, che per la verità si era un pochino offuscato, ha ripreso a splendere. La “Abenomics” comincia a dare i suoi frutti e il sostegno alla domanda interna ha fatto aumentare il Pil, nell’ultimo quarto, di un inaspettato 1%. Il che significa, come trend su base annua, arrivare a un Prodotto interno lordo del 4%.
Vedremo.
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