Sinai, ultima frontiera per il Califfato? Sembrebbe di sì, visto quello che riescono a combinare da quelle parti i terroristi affiliati all’Isis. “A bloody week” (Una settimana di sangue) titola lapidario dal Cairo Al-Ahram, analizzando l’ultimo attentato di una settimana fa, in cui sono stati uccisi 18 soldati della Seconda Armata egiziana, tra cui un brigadier generale. La novità, dicono fonti israeliane, è che i jihadisti non si muovevano a casaccio, come “cani sciolti” raccattati in qualche accampamento beduino. Al contrario, sembravano inquadrati militarmente come un’unita disciplinata, tanto che i miliziani sono stati capaci di far saltare in aria alcuni mezzi blindati di fabbricazione americana. Il convoglio egiziano è stato attaccato nel nord del Sinai, diventato un nuovo santuario dell’Isis.
Si muoveva lungo l’autostrada che collega El Ariish a Bir al-Abed, utilizzando veicoli “Mrap” (“Mine resistance ambush-protected”), garantiti da Washington couasi invulnerabili alle bombe. Quasi. Perché i terroristi hanno fatto un macello, utilizzando due ordigni esplosivi ad alto potenziale che hanno colpito, simultaneamente, la testa e la coda del convoglio.
I sopravvissuti, che cercavano di scappare, sono stati falciati a raffiche dii mitra dagli aggressori, che erano acquattati dietro le dune. Subito dopo i jihadisti si sono dileguati, senza lasciare traccia. La cosa più inquietante, dicono i servizi di intelligence Usa (a cui gli investigatori egiziani si sono rivolti), è il sofisticato esplosivo utilizzato, di una potenza formidabile.
Come se lo sono procurati? Un’altra considerazione fatta è che sicuramente l’attacco è stato condotto da “nuovi arrivi”, miliziani trasferitisi dalla Valle dell’Eufrate siro-irakena. Come? Una delle ipotesi dei servizi d’intelligence egiziani. è che, come in un vecchio film di spionaggio, i combattenti dell’Isis (sunniti) si siano “camuffati” da sciiti e da Anbar, in Irak, si siano diretti a sud, verso lo Shatt-alArab, alla confluenza del Tigri con l’Eufrate, vicino Bassora.
Da qui si sarebbero imbarcati a bordo di qualche peschereccio per una lunga traversata, che li avrebbe portati dal Golfo Persico al Mar Rosso, fino al Golfo di Aqaba.
Lì, accolti da emissari delle tribù beduine, avrebbero compiuto l’ultimo viaggio, nel deserto, per giungere nelle loro basi segrete, nel nord del Sinai. Altri “strategist” dell’antiterrorismo del Cairo, ritengono, invece, che l’infiltrazione sia avvenuta attraverso la Giordania, in direzione Aqaba. Da lì potrebbero, semplicemente, aver preso il traghetto che arriva a Nuweiba (Sinai dell’est), dove sarebbero stati accolti dai fiancheggiatori beduini. In ogni caso, la certezza che i terroristi siano giunti da tanto lontano è una pessima notizia per l’Egitto e apre molti interrogativi.
Se i miliziani dell’Isis si sono infiltrati nelle tribù che vivono nel deserto (da sempre ostili al governo del Cairo) andare a beccarli sarà come cercare un ago in un pagliaio.
Naturalmente i generali di El Sisi minimizzano. Fouad Allam, membro del Consiglio nazionale contro il terrorismo e l’estremismo, afferma che la situazione della sicurezza nel Sinai “è migliorata rispetto a qualche anno fa”. Sarà.
Ma i fatti dicono altro. L’Isis, che si è installato massicciamente nel Sinai, si è diviso i compiti tra i vari gruppi che hanno messo radici nella Penisola. Si fa chiamare “Ansar Beit al-Maqdis” il ramo principale, che si occupa di attaccare obiettivi “pesanti “, come convogli militari e stazioni di polizia. Per certi versi più insidiosi sono altre due “filiali”: “Hasm” (“Decisione”) e “Leewa al-Thawra” (“Brigata Rivoluzionaria”). Più piccoli e difficili da identificare, questi nuclei di terroristi puntano soprattutto a colpire l’Egitto al cuore, mirando a organizzare sanguinosi attentati al Cairo. I prossimi mesi, dicono a mezza voce gli “adviser” del generale-presidente (El Sisi), potrebbero essere abbastanza caldi.
Caricamento commenti
Commenta la notizia